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S.P.Q.R

Lunedi, 13 Aprile 2015  


La prima grande sensazione arrivando a Roma è che la città abbia più abitanti di quanti ne servono. Fuori dalla stazione Termini si vedono tutte le facce del mondo, e il caos di bus che partono dal piazzale, chiamato dei Cinquecento, sembra il modello in scala di una delle innumerevoli bancarelle di souvenir e gadget, perlopiù utili a nessuno, o forse sta a parafrasare il numero approssimativo delle tante linee che tagliano come burro la capitale. Però, la città, perfino nelle sue brutture, è accarezzata da una formidabile luce ottocentesca, che scalda indistintamente colonne, capitelli, i piccioni ingrigiti dallo smog, i cestini vuoti dei fast food abbandonati sotto il marciapiede.
Ci vuole forza per vivere a Roma, per affrontarne le buche, le macchine che sfrecciano da ogni angolo, neanche fossero inseguite da droni impazziti, pronti a disintegrarle al primo semaforo rosso. Bisogna essere un po' legionari, un po' imperatori dispotici, e allora, solo allora, capisci perché quella città fu capace di conquistare il mondo. C'è il profumo del caffè, e i “pizzettari” che si alternano ogni 20 metri, creando una sorta di invisibile collegamento internet di essenza filante e odorosa.
Sto ancora costeggiando la grande stazione; in via Marsala un vecchio uomo con tanto di cappello borsalino esce da un elegante portone. Sembra una di quelle figure che improvvisamente compaiono nelle pagine di un romanzo di Gadda, o di Moravia, certamente sbucato fuori da un altro tempo. Dal fianco della gamba destra defila un bastone in legno mogano, e con l'estremità di quest'ultimo comincia a tocchettare con minuscoli movimenti un ammasso di coperte lerce sopra un cartone, sotto di queste si scorge la figura di un uomo, di una donna, di uno dei tanti disperati che in quegli angoli di strade trovano, cercano riparo. Continuo a osservare a distanza; il vecchio e distinto uomo, dopo essersi leggermente chinato sembra aggiungere più vigore ai piccoli affondi del suo bastone. Dall'altra estremità, dal basso di quel disperato mondo non giunge alcuna risposta, nessun sussulto. Mi guardo intorno, ne vedo molti altri, distesi, appoggiati ai muri, aggirarsi su scarpe senza lacci. Penso che forse è un fatto normale, una consuetudine che le odierne metropoli ci dispensano senza troppi sensi di colpa.
Se vuoi sapere qual è il vino peggiore che puoi trovare in una città, devi guardare tra i cartoni di questa gente. Decido di alzare lo sguardo, uno splendido gabbiano dischiude le bianche ali sopra il tetto di un’edicola. Ha uno sguardo, fiero, sicuro, e sembra non badare troppo al frastuono dei clacson, dei motorini smarmittati, della musica assordante che tracima fuori dai negozi di abbigliamento, dalle sirene delle ambulanze. Roma non è proprio sul mare, ma i gabbiani che la popolano e che abitano il Tevere concedono ai monumenti un’ulteriore sbeccata, una leggerezza, uno slancio, verso il cielo.
Il sole, arancione fiamma, s’infila in ogni crepatura, accarezza ogni marmo, tufo, travertino. Rimango con la testa in aria, in venerazione: perfino le parabole e le antenne dei pakistani o dei marocchini mi sembrano tutto sommato belle, aggraziate, gentili.
Al ritorno verso la stazione mi ritrovo nuovamente in via Marsala. Non c'è più l'uomo distinto, con cappello e bastone, non c'è più il disperato sotto le coperte.
Rimane solo il cartone lercio, la scatola vuota del vino peggiore che si può bere, sotto la luce più bella del mondo.

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