La fiera dei morti

Sabato, 11 Gennaio 2025


Ed eccomi, improvvisamente sveglio, avvolto ago e filo nella notte.
La mia mente, per qualche bizzarro motivo, mi aveva riportato alla fine degli anni Settanta. Da qualche parte, riposto nel buio della stanza, avverto un dimenticato profumo di “canistro” pieno di glassa zuccherata, e poi quella strana sensazione o congiungimento emotivo che accompagna i morti a visitare i vivi.
Palermo alla fine degli anni Settanta era una cartolina scarabocchiata, una tela di un Guttuso anarchico, euforico. Tra teste di pesce che fissano il marciapiede, foglie di cardi e gambi di carciofi abbandonati ad ogni angolo di strada.
Le automobili avevano il muso di uomini e donne: la Simca sembrava un ragioniere arrabbiato, la Fiat 128 aveva l’espressione di un macellaio burbero, la Renault 4 di una nonnina infreddolita avvolta nel suo scialle.
Le macerie ancora ben visibili delle bombe degli alleati mostravano porte appese al cielo e finestre sulle nuvole, vecchi intonaci di calce color verde pera, una foto di famiglia e mattonelle ancora miracolosamente attaccate che fissano il porto, quasi volessero partire.
Edifici malamente squartati che, come quarti di bue appesi al gancio della storia, grondavano vite trascorse e ricordi da abbattere.
La notte tra il primo ed il due di novembre si andava alla fiera dei morti. Impauriva non poco i più piccoli l’idea che se non si fossero comportati bene, loro, “i morti”, gli avrebbero “grattugiato” i piedi.
Nessun bambino si sente veramente buono, dunque quella particolare notte ci si rannicchiava il più possibile tenendo i piedi tra le mani e sperando di non essere visti. Nel sud la paura viene inculcata come un salvavita o un dazio culturale, sin dai primi anni di vita; certamente anch’io come qualunque altro bambino speravo in qualche dolcetto, però intanto nascondevo i piedi.
C’ero stato anch’io da piccolo a quella fiera. Nel cuore di quella Palermo un po’ sventrata improvvisamente un mare di luci e rumori sfidava il buio e la quiete della notte.
Bancarelle improvvisate colme di giocattoli e leccornie. C’erano le immancabili “ossa di morto” (biscotti di cioccolato che commemoravano un folcloristico carcame da mangiare). Ed ancora: i pupatielli, i taralli ed i nucatoli, ed infine: la frutta martorana e i “pupi ri zuccaro”: statuette di zucchero dipinte, ritraenti ora figure muliebri che trasportano un’anfora, o che suonano un tamburello, e poi gli immancabili Paladini (a cavallo nelle versioni più costose), orgoglio e stilema dei siciliani vincenti e perdenti.
In mezzo a questa fiumana scorreva anche la puzza della vita, della spazzatura, delle molte persone che vivevano di espedienti come quello, insomma la vita per i vivi non era facile e non lo era soprattutto per noi bambini, perché tutto quello zucchero malamente raffinato e colorato non avrebbe occultato l’unico paio di scarpe (vecchie) che possedevamo, e neanche l’atavica certezza che una di quelle mattine ti sarebbe toccato indossare le scarpe ed il maglione brutto di tuo fratello maggiore. Dopo qualche anno, tu stesso avresti dovuto passarli a tuo fratello minore, e via discorrendo.
Eravamo come libri usati in cui non si potavano cambiare o cancellare le scritte ed il destino. Forse per questo quando mangiavamo la pupa c’era una certa efferatezza nello staccarle ora un braccio, ora la testa: non doveva soffrire.
Questa notte, dopo quasi cinquant’anni, mi sento nuovamente piccolo in questo buio, mi tocco i piedi con la certezza che di quel mondo e di tutti questi ricordi è rimasto solo un mucchio di ossa, le uniche, le sole, le mie.


Profumo di calendula

Mercoledi, 12 Giugno 2024


Dopo tanti anni di autogrill, backstage, “Gasthof” in luoghi angustiati, non avrei mai potuto immaginare di aprire la porta di un bagno pubblico e di rimanere attonito: qualcuno, in un attimo di delirio o di insano furore, si era strappato i capelli.
Stavano lì, un po’ dappertutto: sul pavimento, sopra la tavoletta, dentro la tazza, come balle di fieno lontane chilometri dalla campagna, urlavano la loro disperazione.
Ebbene sì, quel pomeriggio, dentro un comune cesso della Volkshaus di Zurigo, tirare la catena dello sciacquone avrebbe richiesto la forza di tutta una vita. Avevo la sensazione che, nonostante si muoia ripetutamente, purtroppo si nasce solo due volte: una quando esci dalla pancia di qualcuno, l’altra quando capisci per tempo chi diavolo sei veramente. Senza la seconda esisti solo come contraccolpo universale, come sputo biologico, sei una barca ancorata nel deserto, figlio illegittimo di un vuoto incolmabile.
Torno in sala. Sul palchetto accanto al deejay, su due divani come dentro il biotopo di una comunità freak, vive e prolifera l’area “vip” della serata.
Sirene arenate sugli scogli di una milonga in tempesta, giovani e affusolate donne (perlopiù asiatiche o dell’Est) attendono un maestro o presunto tale per accendersi e calarsi in quel mare pieno di pesci piccoli. Una malcelata noia, mescolata ad un divertimento posticcio figlio della superbia, le costringe ad isolarsi su un telefonino e mandare selfie in qualunque direzione del globo massmediale. Shakespeare avrebbe scritto: “essere e non esserci”.
Sulle note d’inizio di un valzer un paio di occhietti sorridenti e impauriti si fanno largo tra i tanti.
I suoi settant’anni sono tutti raccolti in quei capelli che, come un canestro di frutta dipinto da un Caravaggio innamorato, si offrono ancora alla vita. La pelle delle spalle al mio abbraccio scivola come una coperta e svela al tocco della mia mano il disegno delle vertebre. Arrivo alla scapola, lì mi fermo e cerco di connettermi al respiro e a quel nuovo habitat provvisorio. L’abito di pizzo nero, forse ricamato dalle stesse ossute dita, profuma di calendula. Mi pare di abbracciare la primavera.
Bene, c’è vita dentro, e in quel suo stringermi sento presente l’assenza di un compagno, forse scomparso da troppo tempo, oppure di un figlio assorto dagli impegni e dal troppo lavoro. In ogni caso mi offro ad ogni carenza con quell’altruismo che un po’ il tango, un po’ la vita, mi hanno saputo insegnare.
Certe volte devo sforzarmi di non guardare, perché come una spugna finisco per impregnarmi dei pesi altrui. Quel pomeriggio, nonostante la lotta ingaggiata con me stesso, finisco per cercare tra la folla l’aura disperata di quell’uomo forse ormai scappato, “strappato” (come la sua chioma) da un insostenibile dolore.
La serata scorre e per fortuna quell’abbraccio intriso di calendula sembra non volermi abbandonare, sembra dirmi: tranquillo uomo, figlio, giovane vecchio ragazzo, per oggi ti proteggo io.


Il dito mancante

Venerdi, 10 Maggio 2024


Oggi, sul mio vagone un uomo dalla folta barba bianca accarezza l‘aria cercando nel vuoto un dito mancante della mano. Lo osservo, guardandomi bene dal non farmi notare, penso che nella vita avrei voluto rinvenire in me un qualche dono invisibile, un inaspettato potere, conquistato o immeritato poco avrebbe importato. Su quell‘anonimo treno adesso, stavo mentalmente aprendo un giallo di Napoli, e dopo averlo mescolato ad un rosa quinacridone e ad un pizzico di bianco di titanio ecco: il prodigio, pennellata dopo pennellata avevo ritornato a quell‘uomo il suo dito perduto. Luce e meraviglia: dopo aver così tanto desiderato, immaginato, visto e perfino annusato l’odore della trementina, come avrei potuto adesso rivelare a me stesso e a quel vecchio che io di alchimie non ne ero proprio capace? La fantasia aveva cinicamente mutilato anche me, e mi aveva sprezzantemente restituito alle sole cose che possono accadere: a quella stagione che arriva all‘improvviso e che ti pare di sconoscere. Quel tempo in cui cominci a scansare i funerali, rabbonito e intorpidito dagli anni, da quella nuova e sciagurata empatia che si incunea tra le costole, e che crea una patina opaca su ogni nuova ruga o capello bianco; già, prima o poi ci tocca andare, morire, perdere una parte di noi. Stringo la mano, trovo tutte le mie dita, le mani sfregandosi provano a farsi coraggio e così, come ad uno storico è richiesto il solo conoscere la storia (e non deve certo affaticarsi ad interpretarla o reinventarla, graziarla), io potevo fare il mestiere della pittura come un qualunque piccolo manovale, e quel liberarsi dall’impellenza dell’inventare e di ricorrere ad un improbabile miracolo mi avrebbe dispensato, e reso finalmente un piccolo operaio dell’arte. Questo nuovo pensiero avrebbe dovuto bastarmi, svegliarmi. Eccomi: possedevo ancora il respiro, tutte le dita, una fantasia affilata che si diverte a cucire dita ritrovate ad anni perduti.


L'arte del sopravvivere

Lunedi, 05 Giugno 2023


Tutto ebbe inizio e fine quando il mio insegnante di pittura, dinnanzi a una diapositiva di Michelangelo, lanciò in aria il telecomando, e corse via dall’aula piangendo.
L’inizio: non dimenticherò mai quella mattina in cui decisi di iscrivermi all’Accademia di belle arti. Due enormi edifici separati da una strada principale che taglia il vecchio quartiere Papireto di Palermo. Qui, rigattieri, barbieri e bancarelle di cibo improvvisato sono un paradigma che tutt’oggi sopravvive alle intemperie della modernità, e alla ritenuta d’acconto.
I calchi monumentali all’ingresso sembrava volessero lasciar presagire che avrei trovato gli ingredienti giusti: destrezza, eccellenza, maestria, quanto basta per dimenticare quella schiera di ragionieri e geometri mancati, che la vita in cooperazione con qualche politico locale aveva adagiato come titolari di una cattedra di disegno al liceo artistico.
Finalmente l’inizio dei corsi.
Giunto nell'atrio chiesi al bidello (stagionato dalla noia e dall’aria ammuffita del ripostiglio delle scope e della carta igienica) dove si trovasse l’aula di pittura. Questi, lasciando fermo lo sguardo in direzione del pacchetto di Marlboro, come rispondendo alle “senza filtro”:
“Che ne so io ? Di solito stanno all’ultimo piano, quelli”.
Salii, mi pareva di essere finito dentro un cinema porno pomeridiano, ci scrutavamo abbassando lo sguardo, con l’aria di chi c’era finito per sbaglio, spinto dalla folla e da qualche atavica manchevolezza o frivolezza coniugale.
Dopo una mezz’ora di nulla generale, eccolo: il maestro è arrivato.
Un giovane, dall’aspetto inconcludente, a metà tra un Nanni Moretti democristiano, ed un Woody Allen palestinese, sguardo fintamente intellettuale e palesemente disturbato dalla nostra e dalla sua stessa presenza.
Si tolse la giacca stropicciata dal caldo e dall’arroganza accatastata sopra, cominciò un appello con la stessa austerità di uno che legge al collocamento una selezione di disperati che quel giorno avrebbero miracolosamente lavorato. Il mio, di nome, lo scandì forte: “Antonello Messina”; mi cercò tra i tanti, come per dire: ecco un altro scemo che pensa di poter fare l’artista solo perché ha un nome da pittore. In effetti in accademia di nomi, ma soprattutto di cognomi, ne giravano pochi, e non ci volle molto a capire che nonostante non si parlassero tra di loro, nonostante si schifassero vicendevolmente, quella schiera di insegnanti erano tutti miracolosamente imparentati: padri, figli, zii, tutti magicamente assunti e immolati sull’altare dell’arte e dello stipendio fisso.
Secondo giorno: convinto che avremmo cominciato a fare sul serio mi portai dietro la mia vecchia cassetta con dentro i colori ad olio, un paio di palette, pennelli, un piccolo strofinaccio, forse inconsciamente o più ingenuamente volevo far colpo, dare la parvenza di uno che faceva sul serio. Dentro quella scatola una sfilza di domande: per diluire al meglio quanta e quale trementina adoperare, certe alchimie sulla gomma arabica di cui avevo perlopiù letto in vecchi manuali. Quando l’insegnante si avvicinò alla mia postazione mi guardò come se avesse avvistato un disco volante sul soffitto: “Ma che ti sei portato dietro ?!“
Tutto l’occorrente per dipingere, risposi io. Mi voltò di scatto le spalle per parcheggiarsi verso il tizio che mi stava accanto. Questi era al quarto (e quindi ultimo) anno di pittura. Il primo giorno di scuola si presentò con una porta tra le braccia, tutto il suo lavoro artistico ed intellettuale consisteva nel praticare un paio di fori al giorno attraverso l’uso di un piccolo trivellino. In effetti di buchi quella porta ormai ne aveva a bizzeffe, e lui nel suo faticoso processo di trasmutazione da uomo a tarlo, dopo averne praticati un paio si riposava per il resto delle ore svolgendo con altrettanta perizia il ruolo più umanoide di fabbricarsi sigarette e rullarsi qualche canna. Mi parve sin da subito che il professore trovasse il suo compito artistico più affine al contesto rispetto al mio; uno che voleva dipingere e disegnare in modo accademico in un’accademia era, forse a mia insaputa, in quel tempo o in quell‘aula, una sorta di “pleonasmo linguistico”.
Tra le altre materie c’era la famigerata anatomia, e colui che avrebbe dovuto (nella migliore delle ipotesi) dispensarci un 18 sul libretto era un rinomato e temutissimo “spacca ossa”. Si vociferava ogni anno (da almeno dieci anni) che l’anno dopo sarebbe andato in pensione, ma lui sbavando e sudando sembrava non voler rinunciare per nulla al mondo a rovinare le potenziali giornate di mare degli iscritti al suo corso. La felicità certe volte si accontenta di poco; di un diciotto in anatomia, ed io ora lo sapevo.
Parte seconda: occupazione.
Quell’anno, nell’autunno del ‘92, dopo poche settimane dall’inizio dei corsi scattò l’occupazione, preceduta e oleata dalle interminabili riunioni guidate dal movimento studentesco e da qualche sindacalista intento a fare carriera.
Ognuno assolveva al suo ruolo, come? Lubrificando lo sciopero. Gli insegnanti ci incoraggiavano sottovoce ad occupare.
Gli studenti attempati (soprattutto quelli dell’ultimo anno): magliettina del Che Guevara, maglioncino volutamente un po’ lercio attaccato alla vita, borsetta di cuoio, alito guastato dal tabacco e dai troppi avverbi usati. Non vedevano l‘ora di accamparsi in segreteria e di scacazzare impuniti i bagni.
Ognuno nella sua divisa, nel suo ruolo; c’era anche l’immancabile paio di agenti della DIGOS: baffo folto e impermeabile (a Palermo). Detto tra noi, si sarebbero infiltrati più discretamente se fossero venuti come carabinieri a cavallo; in ogni caso, anche se riconoscibili più di un boy-scout al primo giorno, questi cercando di apparire discreti seguivano i comizi e le riunioni, come un ateo segue la processione del santo patrono per controllare che nessuno rubi le offerte, o lanci una bestemmia verso il governo.
In tutto questo caos, le ampie finestre, quei muri scorticati dal tempo e da storie raccontate, immaginate o dipinte, sembrava volessero parlarmi e spiegarmi che l’arte era comunque lì, nascosta in qualche anfratto, era l’aureola invisibile di un busto, era la polvere su un putto di stucco, era il chewing-gum attaccato sotto il banco, era la scopa del bidello che nel raccogliere la polvere accarezzava il tempo.
Finita l’occupazione tutto tornò come all’inizio, fu perfino cancellato il vulcano in eruzione che io avevo dipinto in segno di protesta, nella stanza del rettore, sfogo per le centinaia di chili di colore che qualcuno avrebbe dovuto distribuire a noi studenti, e che invece venivano occultati, nascosti, per chissà quali motivi in un magazzino adiacente. Una volta scovati li usammo, finalmente, in un coito di colori non interrotto, con rabbia, senza alcuna parsimonia.
Parte finale:
Mi ero preparato per riprendere da dove avevamo lasciato: la fuga, quell’impeto di amore verso l’arte, quell’esplosione insostenibile di emozione e ammirazione verso quella diapositiva spalmata sul muro. Il Tondo Doni del Michelangelo.
Quanta poesia nascosta doveva esserci dentro quell’uomo per indurlo alla diserzione, ad abbandonarsi senza remore al pianto. Continuavo a ripetermi che in quel gesto forse stava tutta la grandezza di quell’insegnante, il mio professore di pittura, di colore, di emozioni forti; dovevo aspettare, dovevo capire, dovevo crescere.
Salendo le scale incontrai un compagno di corso, mi vide particolarmente acceso, di un rosso carminio e di un vigoroso entusiasmo per la ripresa delle lezioni di pittura.
Gli dissi: “Sai, quell’ultima lezione mi ha toccato, vedere il professore scappare davanti alla grandezza di Michelangelo ... “
Lui: “Ma chi ? Ma hai veramente pensato questo ? Ma quello è scappato perché si era lasciato con la fidanzata! Vedrai che oggi non scappa, li ho visti nuovamente insieme baciarsi nel parcheggio”.
Io: “Dici sul serio?”.
Lui: “Certo, ogni volta che si lasciano lui va in crisi e scappa”.
“Che fai ?
non sali?
....L’ora comincia”.
Io: “No, penso di aver chiuso”.
Uscito fuori dal mastodontico portone un pallone mi rotolò fino ai piedi: “ Pallaaaaa”, mi gridarono dei ragazzi dal fondo della strada.
C’era una luce fortissima, abbagliante, una di quelle che solo Palermo sa regalare o infliggere. Dall’altra parte della strada le botteghe dei rigattieri scagliavano bagliori, come schegge di stelle impazzite, finti alamari d’oro, ex voto e armature dei pupi: Orlando, Rinaldo a spade sguainate, mi confondevano gli occhi, mi accecavano di riflessi.

Pensai:
“Eccola l’arte,
è la luce,
è fuori”.


Tango e polvere

Lunedi, 22 Maggio 2023


Mi ero ripromesso di non scrivere più del tango, come un alcolista momentaneamente smaccato dalla propria dipendenza promette ad un gruppo di sostegno che non aprirà mai più una bottiglia di whisky. Ma per me il tango è diventato anche un esperimento sociale, e come un entomologo pettegolo osserva due insetti uno sopra l’altro, immaginando una gioia che ad occhio nudo non si può vedere, io spesso mi blocco ai margini della sala e osservo la ronda che passa e ripassa.
La Milonga in trasferta è come una finale di calcio, e quando quelli di Berna vanno a ballare a Zurigo, questi all’accoglienza abbozzano un mezzo sorriso, e come in una transazione ingarbugliata, ti scrutano dalla testa ai piedi per cercare di capire dove sta la fregatura; probabilmente funziona anche al contrario, in ogni caso rimane una “compravendita” difficile.
Entrato in sala, la prima cosa che mi colpisce sono i grumi di polvere ovunque: sotto i tavoli, ai piedi delle sedie, perfino al centro del pavimento, cespugli rotolanti, comparse anonime di tante pellicole Western, a metà tra il deserto del Colorado ed il tubo catodico; polvere.
Gli ampi pantaloni da tango trasformano i miei passi in un monsone estivo che soffia imperterrito fino al lato opposto della sala; giunto al tavolo, si quieta il vento e la polvere che mi gira intorno si arrende tra le scarpe.
La musica inizia, ed il musicalizador come in un cerimoniale laico si sposta al centro della sala per cercare di capire se il suono è abbastanza incisivo e penetrante. Lo è, per Dio se lo è. Il più delle volte questi dj sconsacrati dalle discoteche ignorano qualunque nozione di acustica, con il risultato che la musica è sempre sbilanciata sui bassi, che pulsano talmente tanti decibel da arrestare in corsa un pacemaker cardiaco. I miei auricolari antirumore anche questa volta saranno una mano santa ficcata dentro le orecchie.
Accanto al dj, sul palco, in due vecchi sofà, si dispiega il corpo d’élite della Milonga. Donne giovani, sedute sbilenche dentro i loro vestiti sottovuoto, come purosangue nei box attendono in una noia camuffata da divertimento il loro turno. Destinato a pochi, s’intende.
Tiro un lungo respiro: provo a mantenere un atteggiamento non ostile, sono un discreto ballerino, e ormai ho imparato il passo più difficile: lasciar perdere.
Provo a far notare che potremmo buttare via quei quintali di apparenze e provare a divertirci, ma nonostante il mio sguardo sia a tiro, sembro non destare la loro curiosità; d’altronde non sono il tipo che ti si blocca davanti e spinge sul fatto compiuto. Rinuncio. Anzi: decido di giocare con il resto della sala.
Una ballerina intelligente sa che un buon ballerino (anche se è uno sporco Yankee della capitale) è una risorsa, ma noi “bernesi” sembriamo non esserlo.
Fortunatamente altre donne, alcune di queste perfino più dotate delle sopracitate, anche loro vittime consapevoli della selezione innaturale del tango, innescano una chiara mirada: eccomi.
La Milonga per me è cominciata, qualche sguardo già conosciuto, qualche abbraccio, ad una Tanda buona ne segue una mediocre: tutto nella normalità.
In fondo alla sala, una giovane donna seduta da sola fissa da tempo le sue scarpe color turchese di cobalto. I tratti sembrano dell’Est, ha un viso e dei capelli molto belli che si intrecciano come una ghirlanda fino alla schiena.
Se una donna sta seduta per tre quarti della Milonga, la mia anima comincia a darmi calci dal di dentro, e mi dice “alza il culo e vai”.
Mi avvicino cercando di non disturbare chi sta in pista, come un pescatore armato di canna ed esca di un solo colore, ma lei continua imperterrita a fissare il vuoto, ed io, non avendo abbastanza sfacciataggine da piazzarmi proprio di fronte a lei, lascio perdere, torno a ballare, tornerò dopo, chissà, forse.
Mi rimetto nella corrente, mi lascio spingere. Dentro c’è di tutto: chi ti saluta cinque volte in un’ora, (tecnica e abile pretesto per farsi invitare), chi non ti conosce più, chi ti sconosce da dieci milonghe e improvvisamente ti sorride, una che mi odia atavicamente senza alcun motivo, e che oggi mi sorprende con: “Ciao Antonello, come va?”.
Un’altra mi dice: “Vado a prendermi un Prosecco, ne vuoi uno?”
“Certo!”, rispondo io. Insomma, come in ogni vera Milonga c’è di tutto, ed io sto al gioco come una carta sta in mezzo al mazzo.
A metà dell’opera ecco materializzarsi un paio di maestri. Uno mi rievoca un giovane nobile decaduto: indossa giacca e vestiti anni Settanta, prova a marcare il territorio, ma la corte adagiata sul palco sembra essere poco attratta.
Poi arriva quello figo: ballerino e insegnante, jeans attillati, magliettina trasandata. Ma lui evidentemente pensa di poterselo permettere. L’Olimpo sul palco trapassato sul divano si anima fino a dimenarsi nervosamente, a contorcersi come anguille, sfoggiando le proprie armi più affilate: nel tango il sex appeal non può essere un valore aggiunto ed io, quando posso, lo faccio notare.
Comincia la Tanda, e coppie come queste non hanno il minimo rispetto della ronda; forti del loro “status”, possono trasgredire ogni regola basilare del codice tanguero: piazzati al centro, cominciano a dimenare colpi a destra e a manca; che si fotta la ronda, e che vada a farsi fottere chi si prende un calcio su una rotula. Ogni guerra conta vittime del fuoco amico.
Li guardo, cerco di trovare qualcosa di buono, di bello, che giustifichi tutta questa marmellata insana: ma niente, nessuna eleganza; movimenti volgari e violenti, e una goffaggine da primate che si muove sul suolo, e non tra gli alberi, mi convincono che il tappo è sì grosso; ma la bottiglia è vuota.
Mi dico che può bastare.
Tra mezz’ora un treno può riportarmi alla normalità o all’anormalità del vivere quotidiano.
La donna dell’Est? Scomparsa, andata, senza aver fatto un solo ballo. Chissà, forse una principiante, forse la più grande ballerina di tango del mondo. Non lo sapremo mai.
In treno incontro un amico tanguero. Domande di rito.
Chiedo: “Ti sei divertito?”
Risponde: “Mah, mi hanno un po‘ snobbato, soprattutto quelle sedute sul palco”.
Io: “Lo hanno fatto anche con me, e dire che non siamo proprio da buttare”.
Ci ridiamo sopra.
Lui: “Avrei voluto ballare con una che è stata tutto il pomeriggio seduta in un angolo, ho provato a guardarla ma lei niente”.
Io: “Anch‘io volevo invitarla! Aveva scarpe color turchese di cobalto, vero?”.
Lui: “Sì”.


Il calzino spaiato

Lunedi, 15 Maggio 2023


Il mio viaggio sul regionale Friburgo-Berna comincia con il tonfo sordo di un monopattino scagliato alla cieca dentro il vagone. L’evento e lo stupore generale che ne scaturisce viene spiegato dall’arrivo di cinque giovani nordafricani che senza troppi complimenti si catapultano in prima classe e cominciano il gioco poco folkloristico tribale e più anarchico triviale di devastazione del vagone.
Come in ogni branco: c’è quello più grosso, e c’è quello più piccolo. Notoriamente il più piccolo è il più pericoloso, perché vuole mettersi in mostra e non essere più al centro delle prepotenze del gruppo, è lui che può scatenare la rissa, è lui che devi tenere costantemente sott’occhio.
Indossano tute con cappuccio, e scarpe sportive di marca, l’abito dunque in questo caso non esprime o giustifica una rabbia dovuta all’emarginazione, al disagio economico. Lo show è fatto di sputi per terra, urla, uno speaker portatile che spara decibel in distorsione, emulazioni di atti sessuali verso i sedili, e bottiglie di alcol vuote che (nel treno ormai in corsa) rullano impazzite tra una sponda e l’altra del vagone.
I presenti, come quando arriva un acquazzone estivo in spiaggia, raggruppano in fretta le proprie cose e cercano riparo qualche vagone più in là, io ho troppi bagagli e cicatrici sull’anima per spostarmi.
Provo a guardare fuori dal finestrino, a catapultarmi con i pensieri verso qualche posto lontano, ma quando sei nato e cresciuto tra i vicoli di Palermo, come in un poker violento, quando la partita si fa prepotente, non solo “vedi”, ma rilanci.
Mi ricordai di quando tredicenne passeggiando con amici incontrammo un gruppo di „scanazzati“ (piccoli delinquenti nostrani) del vicino Borgo Vecchio. In quel caso fu il capo branco a lanciami a distanza il suo avviso di minaccia. Si chiamava Madonia (tra fratelli e cugini un vero e proprio esercito), il cognome (nomen omen) era già tutto un programma nel quartiere. Non avevo scelta; ormai mi aveva puntato, bisognava lanciare un asso su quel tavolo, ed in fretta. Ben presto ci accerchiarono ed il Madonia con riso beffardo mi si piazzò davanti bloccandomi ogni via di fuga. Chiunque altro avrebbe accettato le sberle e gli sputi, oppure preso tempo nella speranza che qualche adulto coraggioso fosse venuto in nostro soccorso. Capii di non avere molto tempo, e la gente antistante sembrava interessata a guardare dall’altra parte. Per qualche motivo misterioso non mi rassegnai all’idea di lasciarmi martirizzare, dunque capitò ciò che poi in futuro mi sarebbe capitato altre volte: uccidere me stesso.
Non sentivo più il sangue in nessuna parte del mio corpo, ero improvvisamente inanimato, una diversa entità aveva preso il sopravvento. La mascella sembrava essersi pietrificata sulla faccia e lì, qualcosa cambiò le sorti del momento, guardai alle mie spalle, come in cerca di me stesso, mi girai e mollai un pugno dritto potente, fulmineo, nell’occhio del piccolo boss del quartiere. Lo stupore generale ci permise di farci largo, scappare e rifugiarci dentro un portone. Sapevamo che ci avrebbero cercato e che sarebbero arrivati i rinforzi… ma ormai era fatta, ed io in quel momento di “assenza” non avevo calcolato i rischi del dopo.
Nei giorni seguenti mi arrivò l’eco: Madonia mi stava cercando, e fu una fortuna nella sfortuna incontrarlo qualche giorno dopo, da solo. Come in un film di Sergio Leone, in una strada semi deserta di una Palermo sporca e arroventata dall’afa, c’ero io e c’era lui, con il suo occhio opera di un mare in tempesta alla William Turner; nero ormai tendente al bluastro. Mi ero preparato mentalmente a ricevere il conto, ma con mio profondo stupore mi passò accanto urtandomi violentemente la spalla come per dire: “oggi non voglio lottare”. Forse in quell’essere soli, senza un pubblico mai pagante che ne avrebbe potuto raccontare, aveva avvertito l’inutilità di farmi o di farci vicendevolmente del male.
Tanti anni dopo, seppi dai giornali e dalle cronache locali (e internazionali) che Madonia aveva fatto grande carriera nella malavita; tuttora mi chiedo come mai quel pugno in un occhio non mi sia costato col tempo, a titolo "risarcitorio", almeno una pallottola in una rotula.
Ecco, abbandonati i ricordi sono catapultato nuovamente sul treno in corsa. Il pezzo piccolo dello scacchiere mi ha puntato, mi indica minacciosamente con una bottiglia vuota, fa il cenno di romperla e di passarla per la gola, vuole guadagnare qualche punto nel gruppo, e per farlo deve aumentare la posta.
Non sento più il sangue, metto la mano dentro lo zaino e tra gli attrezzi che mi servono per sbloccare le voci della fisarmonica afferro il taglierino. Lo accarezzo con il pollice come a volerlo tenere buono e lontano dalla paura che ho più che altro di me stesso. Ormai i cinque non li vedo e non li sento più… sono cieco, muto e nuovamente fuori dal corpo.
Da qualche parte dev’esserci un Dio della casualità, e della temperanza: il caso, o forse l’energia malsana che ormai io emanavo perfino a me stesso, fa sì che i cinque si spostano dall’altra parte del vagone. Il più grosso deve aver intuito qualcosa.
Di tanto in tanto qualche sguardo ravvisava se io fossi ancora lì; c’ero, e la mano era ancora dentro lo zaino. Le loro urla: c’erano anche quelle, accompagnate dalle facce inorridite di chi passandomi accanto cercava ancora riparo da qualche altra parte. Le porte si aprono, scendono, ed io sento il caos spostarsi verso fuori ed il sangue tornare lentamente a bussare nel cuore, bene, sono tornato.
Tanti anni nel tentativo riuscito di restare sempre me stesso, ed improvvisamente, mi ritrovo quarant’anni dopo, nel cuore della limpida Svizzera, assente come tra i vicoli sporchi di Palermo.
Ormai è una moda raccontare della mafia, lo fanno soprattutto quelli che non l’hanno mai vista, annusata, presagita. Quelli che non hanno mai sentito il botto di uno sparo che sparpaglia la folla, e poi il vuoto, il silenzio, ed un lenzuolo bianco che copre un corpo su un marciapiede; quelli che hanno vissuto nei quartieri buoni, o a Cortona, sul lago Maggiore o sul lago di Zug, odierni narratori di un crimine che non possono neanche immaginare. Per me la mafia cominciava così, con il giovane Madonia oggi forse recluso tra quattro pareti di un carcere duro, o forse adagiato dentro un pilastro, morto ammazzato.
Mi chiedo perché questi ragazzi africani sbarcati e adottati tra queste montagne portino dentro tutto questo disagio, cosa devono avergli raccontato i genitori per essere così arrabbiati, incattiviti (forse perfino giustamente), cosi lontani da noi.
Cosa gli stiamo offrendo: un telefonino sempre collegato con un outlet, rapper che mostrano il dito medio su sfondi di musica di merda, raccontano di violenza, di donne in bikini, di armi semiautomatiche, e bolidi screziati che sfondano il guardrail e che per qualche strano artificio o distorsione mentale irrompono dentro un treno.
Forse la cultura, le istituzioni qualcosa dovranno pensare, inventarsi, per Dio, perché questi ragazzi (molti) non riescono proprio ad integrarsi.
Il futuro non regala e non offre niente di buono, e la mia anima si rasserena sapendo che per quel giorno, per quel tempo, io, il mio zaino semiaperto, il monopattino scagliato verso il mondo, e perfino il giovane Madonia, noi tutti non saremo mai esistiti.


Il sogno

Mercoledi, 8 Febbraio 2023


In quel mezzo secolo di vita il mio mondo onirico mi aveva concesso di essere tutto, ma stanotte la mia immaginazione deve aver “mangiato” pesante, ed allora, sogno di essere nuvola che impinguata di fervida fantasia si trasforma in una goccia d’acqua. Eccomi, inerme, in caduta libera sulla cima di una montagna gelida e innevata. Il ghiacchio mi consente di sdrucciolare e mentre lo faccio osservo dall’alto quel cielo plumbeo che mi ha partorito. In questo che sembra un valzer, sprazzi di ghiaccio lasciano intravedere qualche roccia nuda, queste affiorando si mostrano a me (minuscola goccia) come montagne che sgorgano da una madre pietra più grande. Una stella alpina mi segnala l’arrivo del mondo che ho sempre conosciuto, il ghiaccio nel frattempo sembra aprirsi a fiordi e scendendo diventa un ruscello che si fa largo in quel manto glaciale. Sono ancora lì, sempre più veloce e in balia di altre gocce che mi spingono in quel moto irrefrenabile. Adesso posso sentire perfino il nostro gorgoglio, quel fruscio di “noi” acqua, ed il profumo dell’erba fresca, il muschio sopra le rocce come velluto è un paramento che arreda le pietre e le rende più tenere. A tratti la terra ci fa danzare in piccoli vortici colorati, un turbine che saltuariamente mi sporca, e dal quale tuttavia riesco sempre ad uscire depurato, lindo, pulito. Mi sveglio, dico a me stesso che forse quello dev’essere morire e poi rinascere. Siamo gocce di vita che, scendendo a valle, si credono il mare.


Serpotta ed il topo morto

Domenica, 08 Agosto 2021


Alle elementari nessuno ci spiegò chi fosse Giacomo Serpotta, eppure la nostra sgangherata scuola portava quel nome. Situata alle porte del quartiere borgo vecchio di Palermo, la scuola accoglieva perlopiù tutte le giovani e già travagliate anime di una “zona” difficile; molti di questi bambini annoveravano uno o entrambi i genitori in galera. Lasciati alla custodia dei nonni e alla strada, crescevano sbandando pericolosamente. A sette anni sapevano già sputarti da dietro senza che te ne accorgessi, o dare pugni e calci, per il solo gusto di farlo.
In classe solo banchi e sedie malmessi, lontani anni luce dallo scintillio di benessere e opulenza di metodi Montessori e Rudolf Steiner, sembravano volerci ratificare di essere già in Africa, ancor prima che l’Africa traghettasse da noi. Il gesso bisognava chiederlo al bidello, a patto di trovarlo.
Quei muri scrostati e carichi di rabbia rispecchiavano l’abbandono di tanti capolavori a Palermo, proprio come l’Oratorio di Santa Cita, legato ago e filo alla storia del Sign. Serpotta. L’oratorio; uno scrigno barocco di inestimabile bellezza, chiuso per decenni, abbandonato all’ignoranza di amministratori beceri e mafiosi, all’umidità e alla muffa, all’oblio di gattopardesca memoria. Stessa patina anche su di noi..sopra le nostre teste traboccanti di indomiti capelli, ebbene, anche noi opere viventi di quel perpetuo sconosciuto Sign. Serpotta. L’ora d’aria andava consumata in un atrio interno alla scuola. Una palma spelacchiata si ergeva triste e sconsolata, tutt’intorno i resti di cartacce mai raccolte erano la nostra biblioteca a cielo aperto. Il sorriso della maestra “Allegra” (di nome e di fatto), la sua dignità nel volerci erudire nonostante quel vuoto intorno, rappresentavano la sola nota di colore, anzi: di normalità.
Più in là, nell’angolo più ottuso di quell’architettura popolare e popolana, il solito ratto morto. Qualcuno con un legnetto raccolto poco distante si divertiva a martoriarne i resti, segni e testimonianza di un martirio, di un’altra battaglia per la sopravvivenza, notturna.
In quella mattutina lottavamo noi, bisognava salvare almeno la divisa: un improvvisato fiocco (un cappio al collo che indossavano solo i piu docili tra noi), ed il grembiule, di un blu di Persia ormai sbiadito e sfiancato dalla quotidianità e dai troppi lavaggi.

Giacomo Serpotta fu uno dei più grandi scultori al mondo, vissuto tra il 1656 ed il 1732, proprio lì, a Palermo, ma nessuno ce lo aveva detto; anche lui figlio minore di un popolo che è abituato a mortificare ed ammazzare il genio, proprio come si ammazza un topo di borgata.


Come stai?

Giovedi, 01 Novembre 2018


Sono programmato per apparire.
Un manto che opprime pur senza imporsi. Sappiamo dunque noi, pur senza pensare, cosa dobbiamo dire, cosa non dobbiamo mai fare. Quella mattina il software "consuetudine" sembrò mal funzionare.
" Come stai? "
rispondendo a bruciapelo: "sto male grazie", scoprii che potevo disinnescare improvvisamente la risposta di chi mi stava davanti. La risposta "sto bene anch'io ", si bloccò a metà del "sto...", e come da una pausa wagneriana in cui gli orchestrali tirano un sospiro di sollievo, si sentì venir fuori una timida sola nota, la voce, come un primo violino rispose:

"sto...,sto..male..
anch'io".
Chiusura del sipario.

Le pause nella musica hanno un valore espressivo e riflessivo, forse per questo nei centri commerciali, o in qualunque fottuto luogo dove si vende qualcosa, il rumore musicale viene offerto gratis, alto, distorto, e ad libitum. Bisogna non lasciar ponderare sull'acquisto, indipendentemente dall'oggetto, l'imperativo è far comprare. Un televisore va comprato con la stessa irriflessione con cui si sceglie (seppur per un uso più nobile) la carta igienica o il sapone per i panni.
Nei film, nella realtà o nella storia, spesso il cattivo si scopre essere stato meno cinico e crudele di chi ci ha salvato dal male. Nello stupore, da finale di sceneggiatura, l'incontro casuale tra due conoscenti dovrebbe concedere, donare una trama vera: un sentimento autentico, pur consumato, dissipato dalla fretta di voler-dover scappare. Non accade quasi mai.

Quel pomeriggio mi misi in viaggio verso la Francia. Un bisogno fisiologico, ancorato alla noia della strada, ci obbligò ad una pausa in un autogrill. Uscendo dalla macchina dopo aver percorso 150 km puoi sperimentare la tua vera età biologica. I muscoli ed i legamenti mi sbandieravano senza pudore i miei quasi 50 anni, non potevo barare. Con la stessa andatura di un uomo del paleolitico mi affrettai nell'immancabile gincana tra accessori per auto, riviste, preservativi, bibite di ogni improbabile colore. Spaghetti imbalsamati accanto a un’agghiacciante wiener schnitzel sembravano volermi suggerire che non troppo lontano avrei trovato il cesso. Così fu. Dentro quest'ultimo, l'odore di urina si mixava alla musica new age. I moderni urimat hanno uno schermo sopra; perfino mentre stai pisciando il mercato globale non perde l'occasione per esortarti ad acquistare qualcosa. Provai a chiudere gli occhi e lasciarmi andare, pensai: cavolo non posso rilassarmi manco al cesso? Fu allora che il telefono che avevo sulla tasca dietro, e che avevo lasciato aperto sull'applicazione di google maps mi suggerì ad alta voce:

"Prendi la seconda uscita"

Quella voce decisa, digitalmente muliebre, nel bagno degli uomini bloccò per un attimo tutti gli astanti. Ci guardammo intorno: storditi, incuriositi, forse parzialmente divertiti. Tornai a guardare solo tra le mie gambe pensando a quella "seconda uscita":
esisteva davvero?
Mi sarebbe piaciuto uscire da tutto, dalla meccanizzazione dei gesti, dei sentimenti, dai saluti confezionati, dalla visione di quell’impasto satanico di carne e spaghetti fatti a pezzi. Dovevo fare qualcosa, subito! Adesso! dissi a me stesso.
Fai qualcosa ora!

Ah, ma…
non devo tirare l'acqua,
l'urimat, la macchina, fa tutto da sola.


La tratta delle scarpe

Sabato, 14 Luglio 2018


L'odore delle melanzane arrostite giunge senza avviso dentro il mio naso, spalancando una porta sul passato. Ho sempre discretamente e segretamente odiato l'estate, credo che questo sentimento avverso verso quel qualcosa che invece tutti amano, si sia accresciuto con la mia infanzia e successivamente si sia amplificato con la pubertà. Se nasci e vivi a Palermo, andare al mare diventa un lavoro interinale; l'abusivismo ha reso il mare distante ad ogni latitudine. Le spiagge più accessibili sono un girone dantesco sul quale si riversa ogni sorta di scarto umano. La gente in spiaggia mostra sempre il peggio di se, e la spiaggia di Mondello non si sottrae: appaltata e sezionata da sempre in concessioni massoniche di gattopardesca memoria, con i suoi tratti vip o a pagamento, delinea una spaccatura universale fuori e dentro il mare. La burocrazia e la prevaricazione al sud sono un Mosè cinico e corrotto. Questi adempie la sua potenza e prepotenza nella più gettonata delle esibizione: la spartizione delle acque. Da noi, da una parte raccoglie il mare, dall'altra deserto.
Io non avevo mai il costume adatto, la necessità di abbandonarmi inerte al sole, di risolvere rebus, e trovare parole da incrociare, non ultimo elemento: non sapevo nuotare. Ricordo quella volta che mi presentai in spiaggia in mocassini e calzini, d'altronde ho sempre avuto scarpe per una sola occasione: la vita.
Qualunque altro tipo di scarpe, ad esempio; aperte con la sottile gomma sotto, avrebbero fatto a pugni con i pantaloni, con la frizione dura della Renault 5, e mi avrebbe esposto al pensiero di quei vetri roventi che il solito debosciato (mai estinto) ha infranto sugli scogli la sera prima. Ricordo la moda dei famigerati zoccoli del dr. scholl.
Con il tempo il legno assumeva alla base un inquietante colore bruno Van Dyck; una patina grassa spessa qualche millimetro che se ben analizzata ed esaminata avrebbe potuto svelare ogni passo falso, ogni tentennamento spaziotemporale. Quell'improvvisata arte fiamminga si mescolava e amalgamava dunque al piede, fasciandolo strettamente ad un odore funesto. Eppure queste scarpe godevano e vivevano sotto un alone mediatico di salute, un vessillo del naturale, di aria campestre, di vita ortopedica, e non ultimo: della perizia terapeutica di un dottore che nessuno aveva mai visto o sentito parlare: il dott. Scholl.
A palermo d'estate queste te le rubavano direttamente mentre stavi camminando. I malavitosi del quartiere avevano sviluppato una raffinata tecnica calcistica che consisteva in un colpetto al tacco dietro: via il primo. Lo vedevi accelerare per poi carambolare sotto il marciapiede. Il secondo lo consegnavi spontaneamente (con le buone o con le cattive maniere), forte della consapevolezza che averne uno solo non avrebbe giovato né a te, né ai "malacarne". D'inverno i figli dei dentisti, dei sindacalisti e della classe "radical chic" dovevano invece spogliarsi dell'altrettanto griffato cappotto loden. Che fine facessero quelle scarpe, quei cappotti non si è mai saputo. Forse seguivano una speciale rotta criminale, verso il riciclaggio, verso una nuova identità. I malavitosi d'altronde non si sognavano neanche lontanamente di indossarli, come diceva Sciascia: "ad ognuno il suo".
Forse a sud del mondo le prime, le dott. Scholl, dove il sudore acre ed il nero avorio del legno non scoraggia gli uomini e gli animali. A nord delle alpi forse i loden, dove il verde ricorda i prati finemente arati, la clorofilla e le alghe che dipingono a malachite l'acqua dei laghi di montagna, il colore dei dollari, che annoiati, riposano nei caveau delle banche.


Parole sul binario sbagliato

Giovedi, 27 Agosto 2015


Il treno che mi porta verso il sud della Francia, sfreccia velocissimo. Sono maledettamente abituato ai treni, al loro diverso afrore, al loro diverso dondolare, ai bagni fuori servizio, a quelli che per la fretta di salire non ti fanno scendere.
Solitamente per una qualche maledetta congiunzione astrale mi trovo seduto di fronte un moccioso che strilla emettendo suoni incredibilmente striduli, sembrerebbe per il puro gusto di farlo. Le madri sedute accanto, sono generalmente incuranti del disturbo arrecato dalla propria prole. La madre di questo sembrava perfino rilassarsi. Una rivista in mano, uno sguardo ad una pagina qui, un'occhiata lì, mentre la sua creatura urla, urta e aggredisce l'umore dell'intero vagone. Eccola: ora gira le pagine con la stessa pacatezza di una casalinga che ha già preparato la cena per la sera e si gode la vita, seduta dal pedicure. La guardo fissa, con un misto di disprezzo e incredulità, ma lei nulla, non alza lo sguardo. In questi casi, spinto dalla crescente disperazione mi cresce una forza bruta, sollevati i miei 40kg di bagaglio (una ventina sono a causa della fisarmonica) cerco riparo in un altro vagone.
Il vagone successivo sembra presentarsi meglio: ragazzo in t-shirt con cuffiette letteralmente inglobato dentro il suo smartphone, trentenne obeso che dorme, anziano con parole crociate. Sto per chiudere gli occhi quando dal sedile opposto sento la voce di una donna.
È una vecchia signora cappello scuro, occhiali dalla montatura nera. Non sembra eccessivamente trasandata, ma la borsa e la busta che l'accompagnano e che tiene saldamente strette sono palesemente lerce. Penso: sta conversando con l'uomo di colore di fronte, ma guardando meglio quest'ultimo: sta profondamente dormendo. Ma dunque con chi parla? la fisso per qualche secondo, ebbene: parla da sola. Il mio francese è un tantino peggiore del mio tedesco, ma fortemente incuriosito da questo improvvisato monologo provo a foraggiare le mie capacità linguistiche e mi improvviso ascoltatore.
Le parole buttate lì, una dopo l'altra sembrano non voler dire nulla, ma pian piano come in un puzzle, un mosaico esploso comincio a mettere insieme le fila del discorso. Ecco, sembro capire: si è appena svegliata, chiama la servitù. Donne dai nomi esotici, che dovevano filare molto a giudicare dalla cadenza seccata e insistente.
Poi c'era il ménage della villa da gestire, la cena con gli invitati, gente da tutta Europa sembrava dover partecipare, bisognava mandare un'auto li, un'altra da tutt'altra parte.
Il salone! arieggiare bene il salone. Poi improvvisamente eccola: in viaggio Parigi-New York. Le strade dove c'erano i negozi buoni, i ristoranti dove avresti trovato un ottimo servizio, posate leggere e luccicanti. Chiaramente, in quel vagone non solo il solo che sta ascoltando, infatti tra una pausa e l'altra con gli altri passeggeri ci lanciamo degli sguardi divertiti come per dire: bó?!
Sembra stanca, le scarpe consumate sono di una che ha camminato tanto e non certo accompagnata dall'autista (come nei suoi sfavillanti viaggi). Il tono improvvisamente diventa più duro, ora parole come: "non potete farmi questo, la polizia, la magistratura, si la magistratura, vedrete", ecco. Adesso queste parole hanno una cadenza funesta, marziale.
Ed io comincio ad incollare insieme le parole, come vagoni di un treno in miniatura. La storia di miseria in cui era caduta questa donna cominciava ad essere limpida, lucida, come se la follia avesse ancora per un qualche motivo, un cavo elettrico collegato alla realtà, al passato, a quella vita cominciata a grande velocità e finita nel binario sbagliato.


S.P.Q.R

Lunedi, 13 Aprile 2015


La prima grande sensazione arrivando a Roma è che la città abbia più abitanti di quanti ne servono. Fuori dalla stazione Termini si vedono tutte le facce del mondo, e il caos di bus che partono dal piazzale, chiamato dei Cinquecento, sembra il modello in scala di una delle innumerevoli bancarelle di souvenir e gadget, perlopiù utili a nessuno, o forse sta a parafrasare il numero approssimativo delle tante linee che tagliano come burro la capitale. Però, la città, perfino nelle sue brutture, è accarezzata da una formidabile luce ottocentesca, che scalda indistintamente colonne, capitelli, i piccioni ingrigiti dallo smog, i cestini vuoti dei fast food abbandonati sotto il marciapiede.
Ci vuole forza per vivere a Roma, per affrontarne le buche, le macchine che sfrecciano da ogni angolo, neanche fossero inseguite da droni impazziti, pronti a disintegrarle al primo semaforo rosso. Bisogna essere un po' legionari, un po' imperatori dispotici, e allora, solo allora, capisci perché quella città fu capace di conquistare il mondo. C'è il profumo del caffè, e i “pizzettari” che si alternano ogni 20 metri, creando una sorta di invisibile collegamento internet di essenza filante e odorosa.
Sto ancora costeggiando la grande stazione; in via Marsala un vecchio uomo con tanto di cappello borsalino esce da un elegante portone. Sembra una di quelle figure che improvvisamente compaiono nelle pagine di un romanzo di Gadda, o di Moravia, certamente sbucato fuori da un altro tempo. Dal fianco della gamba destra defila un bastone in legno mogano, e con l'estremità di quest'ultimo comincia a tocchettare con minuscoli movimenti un ammasso di coperte lerce sopra un cartone, sotto di queste si scorge la figura di un uomo, di una donna, di uno dei tanti disperati che in quegli angoli di strade trovano, cercano riparo. Continuo a osservare a distanza; il vecchio e distinto uomo, dopo essersi leggermente chinato sembra aggiungere più vigore ai piccoli affondi del suo bastone. Dall'altra estremità, dal basso di quel disperato mondo non giunge alcuna risposta, nessun sussulto. Mi guardo intorno, ne vedo molti altri, distesi, appoggiati ai muri, aggirarsi su scarpe senza lacci. Penso che forse è un fatto normale, una consuetudine che le odierne metropoli ci dispensano senza troppi sensi di colpa.
Se vuoi sapere qual è il vino peggiore che puoi trovare in una città, devi guardare tra i cartoni di questa gente. Decido di alzare lo sguardo, uno splendido gabbiano dischiude le bianche ali sopra il tetto di un’edicola. Ha uno sguardo, fiero, sicuro, e sembra non badare troppo al frastuono dei clacson, dei motorini smarmittati, della musica assordante che tracima fuori dai negozi di abbigliamento, dalle sirene delle ambulanze. Roma non è proprio sul mare, ma i gabbiani che la popolano e che abitano il Tevere concedono ai monumenti un’ulteriore sbeccata, una leggerezza, uno slancio, verso il cielo.
Il sole, arancione fiamma, s’infila in ogni crepatura, accarezza ogni marmo, tufo, travertino. Rimango con la testa in aria, in venerazione: perfino le parabole e le antenne dei pakistani o dei marocchini mi sembrano tutto sommato belle, aggraziate, gentili.
Al ritorno verso la stazione mi ritrovo nuovamente in via Marsala. Non c'è più l'uomo distinto, con cappello e bastone, non c'è più il disperato sotto le coperte.
Rimane solo il cartone lercio, la scatola vuota del vino peggiore che si può bere, sotto la luce più bella del mondo.


L'uomo di Bronzo

Sabato, 12 Luglio 2014


Mi riesce difficile pensare a quelli che dicono di amare una città, senza averla mai veramente odiata.
Lisbona non si può odiare. Perfino quel pizzico di decadenza che avvolge certi edifici dalle piastrelle screziate, a tratti mancanti, come uomini sdentati, sembra essere venuta fuori dalla matita di uno scenografo che vuole farci commuovere, a tutti i costi.
Si, si rimane solo rapiti, e perfino i marciapiedi scivolosi sembrano accompagnarti prima che ad uno scivolone, ad una danza suadente, sensuale.
La più tragica delle inadempienze di questa città si lascia perdonare con una semplice "pastel de nata", perché al prezzo di un solo euro chiunque può godere di un esplosione di felicità, già: la felicità a Lisbona è a buon mercato.
Alla Rua da Rosa c'è un uomo statua, uno dei tanti che si improvvisano agli angoli delle città. Il vestito, la faccia, i fiori finti, una bombetta sulla testa, il tutto avvolto da un unico cromatismo imperante: un bronzo dorato che lo fa apparire in tutto e per tutto simile ad una statua, arrugginita, vittima delle intemperie e dei tanti piccioni snervanti. Sotto i piedi un palchetto, dentro risuona, distorta per la pessima qualità dell'audio, una musica malinconica. È già quasi il crepuscolo. L'uomo di sangue e ferro sta terminando di fumare la sua sigaretta/pausa. Io rallento il passo e cerco di carpirne i sentimenti, proprio in quel frangente di tempo in cui non sta recitando: l'immobilità assoluta, l'assenza.
Sembra stanco, pensieroso. La piccola nuvola che avvolge la sigaretta e la sua faccia lo fa sembrare simile al pezzo di una vecchia locomotiva a vapore, stanca ma arrivata finalmente in stazione. Ecco: un ultimo tiro, un sospiro di brezza marina, ed il segno della croce, in questo piccolo gesto finale, scopre e rivela tutta la sua mortalità e fragilità. Ora nuovamente su, sopra il palchetto, come un cristo pagano al servizio dei turisti più beceri e goliardi.
La croce, gesti, simboli di cui Lisbona brulica, ha fame, e ne offre ai suoi ospiti.
L'uomo statua: la solitudine dell'artista mi porta ad immaginare un uomo che sorride a tutti quelli che gli offrono una moneta, e poi dispera immobile, con se stesso. Perfino a Lisbona.


L'ultimo uomo

Sabato, 22 marzo 2014


La stazione di Berna, stanotte, sbadiglia e mi guarda con curiosità.
L'ultimo treno: tutto un vagone vuoto, lo strumento ancora caldo in custodia.
Accendo il telefono?
Guardo fuori dal finestrino?
per una volta chiudo gli occhi e lascio scorrere un vento che non esiste.
La mattina dopo sono nuovamente sul primo treno.
Ed eccomi qui: stessa stazione. Tutto magicamente ripulito e pronto all'uso. La mezza birra sopra la biglietteria, lo sputo accanto al posacenere, quella puzza di mcdonald's che tutte le stazioni del mondo avvolge, tutto sparito. Penso a quelli che sono convinti che fare il musicista sia inviare curriculum ai conservatori di periferia. La mia vita sarebbe un capolavoro, se solo avessi incontrato l'ultimo uomo, "l'uomo che, stanotte, ha ripulito tutto".


La palma malata

Giovedi, 09 Gennaio 2014


Alla fine, riecco Palermo.
A distanza di tanti anni, la città si rotola sotto la stessa coperta lercia.
La pulizia delle strade è gestita solo da qualche sporadico temporale.
C'è crisi; la cultura e la storia non sono più un valore aggiunto, ben altre sono le priorità. La gente sopravvive come puó. La politica è come sempre beffarda, sprezzante, distante anni luce dalla realtà e dalle vicissitudini. Il malaffare; come se vivesse in un mondo parallelo, non teme ricadute o guizzi di orgoglio popolare. La via Roma (arteria centrale della città) mostra poche vetrine aperte, perlopiù stanze vuote occupate dai neo arrivati "compro oro". Un silenzioso esercito composto da fila di saracinesche serrate racconta la guerra che è in atto. Guerra che pretende e promette un'ancor più dura e lunga agonia ai palermitani.
Il giorno dell'epifania il museo d'arte moderna è chiuso, sul portone neanche un biglietto di scuse. Palazzo Abatellis aperto, bene dico io, ma subito dopo essere entrati due impiegati dal volto scoraggiato ci aprono le braccia e ci avvertono che solo due sale risultano aperte; "non ci sono soldi per pagare altro personale". Decido di fare due passi da solo in centro, è ormai sera. I vicoli della via Lungarini sono uno slalom tra i piccoli marciapiedi, le macchine posteggiate sopra, quelle che sfrecciano a fianco, e la merda dei cani. Alzo la testa e rimango abbagliato; un enorme balaustra finemente decorata di un palazzo barocco del Seicento mi restituisce quel senso di bellezza che stavo cercando da giorni. Tutt'intorno è un rifiorire di edifici seicenteschi accuratamente restaurati. Splendido.
Nei portoni non ci sono nomi, nessun campanello, incuriosito, con il linguaggio dei gesti tipico dei Palermitani chiedo implicitamente ad un posteggiatore:
"dov'è finita la gente che ci vive?"
Questi abbozzando un sorrisetto furbo mi risponde:
"Li hanno comprati i politici a due lire, dopo li hanno restaurati con i soldi della comunità europea", non ci abita nessuno, dottore, c'ha una sigaretta da offrire?"
"Spiacente non fumo".
Sbucato a piazza politeama, un coro di lucette natalizie avvolge le palme.
Però qualcosa in quegli alberi mi appare anormale. Mi avvicino, molti non hanno più le grandi foglie, solo un triste tronco che si erge solitario verso il cielo.
"sono malate, stanno morendo".
Parola di un vecchio signore ricurvo sul capotto, anche questi stranamente abbozzava lo stesso sorrisetto ironico del posteggiatore.
Lo guardo, riguardo la palma:
"Qui tutto pare malato,
e ..non c'è niente da ridere".


Nous sommes...

Lunedi, 16 Dicembre 2013


Sono trascorsi più di dieci anni, da quella mattina in cui mi ritrovai a fare colazione con Georges Moustaki.
Eravamo reduci entrambi dallo stesso concerto, ed entrambi mattinieri fummo i primi a sederci nella sala della colazione. Mi chiese da dove venivo, risposi Palermo,
Tu? Dove vivi?, replicai io:
a Parigi, rispose.
Sai Georges non sono mai stato a Parigi, mi piacerebbe tanto andarci.
E perché non ci vai?
La naturalezza della sua risposta congelò ogni mia possibile risposta. In effetti non c'era motivo per cui io non andassi.
Il burro formato monouso è pallido, come un impiegato reduce da un lungo inverno. La carta che lo avvolge copre l'indispensabile e non dispensa le dita che si impregnano facilmente. A quel punto aprire le marmellatine (anche quelle monouso) diventa un vero e proprio lavoro, una crociata, ed io reduce dalla stanchezza mai smaltita del giorno prima, non mi sento volere e poter combattere.
Certi buffet mattutini; dove il caffè è un bottone da selezionare, il cornetto ha un codice a barre, il the è un bollitore con accanto un paio di scatole di cartone in stile naïf con su scritto: "Earl Grey, Lipton" ecco: queste colazioni mi evocano la cremazione, la cenere che rimane di noi, la tovaglia di carta da sostituire per il prossimo ospite che deve fare colazione, questi troverà se vuole, quel mio piccolo frammento di vita consumata sotto il tavolo, accanto alle molliche, alla polvere, quella mattina c'ero stato io, e c'era stato Georges.


Il cielo sotto Berlino

Venerdi, 04 Ottobre 2013


Suonare a Berlino ha sempre un sapore ineguagliabile. Ha il gusto del salato in ciò che è sopravvissuto alla guerra. Ha quello leggermente dolce e mielato del moderno, che come un dessert germoglia e lievita tutt’intorno. Delia sembra uscita da uno di quei film che raccontano della capitolazione del Terzo Reich. I suoi occhi color ghiaccio e il vestitino semplice, d’altri tempi, sembrano mutare il luccichio delle corde, e del legno scuro degli archi, in mitragliatori e fucili di precisione in dotazione alla Resistenza. I suoi acuti, come ordigni esplosi in lontananza, fanno vibrare la cristalleria della casa e mi obbligano ad allontanare le mie orecchie dal bersaglio. Il salone delle prove mostra grandi quadri d'arte moderna, e fila di libri ingialliti. Goethe, Schiller, Hesse, Mann, Schopenhauer, come un esercito ordinato e pacifico, sfilano in silenzio su grandi scaffali a muro. Immersi in questa cartolina sbiadita proviamo a dare ai testi di Tucholski un suono meno marziale. Ci riesce bene il violoncellista, che ad ogni curva pericolosa della musica e del testo, come in una pellicola di Dino Risi, sorpassa e ride.
Il giorno dopo, al concerto, anche il pubblico trova il tempo di sogghignare divertito, tanto che il bis rappresenta per noi una sorta di liberazione. Lo spettacolo piace, dunque la guerra delle nostre preoccupazioni si proclama finita. La stazione di Berlino sembra un moderno hangar. Una perfetta antinomia architettonica, dove è lecito chiedersi cosa ci fanno dei treni, in un posto per aeroplani. Dopo aver acquistato il biglietto che mi riporterà ai miei affetti, mi soffermo a contemplare la luce che sfonda le vetrate. Fuori l'ambasciata svizzera è un'isola che si erge da uno sterminato spiazzo, privo d'acqua per mancata marea.
Gli Inglesi e i Russi con precisione chirurgica l'hanno lasciata lì, integra come un enorme pezzo di formaggio Emmental senza buchi.
Una cosa, in tanti anni di mestiere di musicista, l'avevo capita, e cioè: il nostro lavoro consiste nel mangiare quando non si ha fame, e nel non poter dormire quando si ha sonno. Per quel giorno avrei assecondato con oculatezza almeno lo stomaco.
Il tavolo del ristorante che avevo scelto si affacciava proprio su quella luce che tanto mi piaceva. Tutta gente distinta, in distinti abiti di lavoro: un paio di Giapponesi, uomini in giacca e tablet, bambini con smartphone. Io con il mio giubbotto di pelle, lungo fino al ginocchio, sembro un maresciallo delle SS che recita in un teatro poco lontano. Nessuno sembra farci caso.
La cucina non è male, il sole e il panorama aggiungono una stella "gourmet" al petto del cuoco thailandese.
Dalla porta secondaria si scorge la figura di un barbone; anche Berlino ne possiede ormai tanti. Sembra indossare tre cappotti, uno sull’altro, tutti rovinosamente lerci. Questi stridono chiaramente con il tepore del sole che oggi scalda indistintamente tutti, gratis. Dalle maniche sporgono poco le mani, di queste si distingue benissimo il contorno delle dita, poiché la sporcizia ne traccia perfettamente il disegno. La lunga barba ha un colore indefinito, una sorta di ocra, spenta, mista ad un bianco ingiallito. Ricorda in tutto e per tutto il colore di quei canarini che hanno vissuto in cattività, piccole gabbie poste in cucina, e che poco hanno avuto a che fare con le cime degli alberi e la natura.
L’ingresso del barbone nella sala genera un disgusto generale, come se non bastassero le metropolitane o gli angoli delle strade, a mostrare quelle facce bruciate dal sole o dai fumi dell'alcool. Il primo istinto della gente è quello di avvicinare la portata al petto, come a proteggerlo dalle sillabe che quel disgraziato potrebbe involontariamente sputarci sopra. Il passo successivo è quello di guardare altrove, perché è risaputo che contraccambiare lo sguardo di uno sciagurato è come implicitamente chiedere: "cosa vuoi? ".
Io pur essendo il più vicino alla porta rimango immobile, un po' per sfidare il mio senso igienista, un po' perché tutto quel panico per un uomo, la cui unica colpa è di non incontrare una doccia da troppo tempo, mi pare francamente eccessivo.
L’uomo, apparentemente imbarazzato quanto noi, tiene ben serrato tra le mani un panino, e con questo comincia a girare e frugare tra i tavoli.
Improvvisamente si blocca sul tavolo dei Giapponesi. Questi, intenti a maneggiare la loro ipertecnologica macchina fotografica, insieme al personale di servizio sono gli unici a non essersi accorti di quella presenza incongrua. Proprio sul tavolo di questi ultimi, il barbone sembra trovare cosa stava cercando: infila le dita lerce nel panino e lo apre. Si scorge un’unica fetta di formaggio fuso, i bordi scuri ne testimoniano con molta probabilità le tante ore di abbandono dentro uno dei tanti cestini della stazione. L'uomo prende a stento per le dita gonfie e le unghie lunghe il piccolo porta sale in vetro e lo agita scompostamente sopra il panino. Senza tradire alcuna emozione lo richiude, e come un cliente, un uomo, una persona qualunque si dirige verso la porta, la apre e scompare nel vortice caotico della stazione.
Tutti sembrano rianimarsi, e tranquillizzarsi. La normalità torna ad affollare il ristorante. Io ripenso a quell'uomo, all'intera scena. Un pizzico di sale: questo mancava dunque a quel panino raccolto dalla spazzatura. Tutto qui.
Esco dalla stessa porta per mescolarmi come tutti in quell'enorme minestrone di esistenze condite e scondite. Mentre cammino penso che la vita sì, può essere parecchio amara, acida, acre, ma non necessariamente sciapa.


Le vite di frontiera

Venerdi, 17 Maggio 2013


Conoscevo ancora bene Graz. I sontuosi merletti dei palazzi e, sotto ad essi, i tanti poveri dalla mano tesa che insieme all'aria dell'est sfondano i confini della Stiria dalla vicina Slovenia. Dopo sette anni niente sembra cambiato, la città ha l'arte nel sangue. Il moderno sembra andare a passeggio con il folcloristico Bayerische style e tutti e due ti regalano la sensazione di cavalcare due vite distinte e separate.
I musicisti di tutto il mondo mi pare siano accomunati da un'unica nota comune: a fine concerto hanno nuovamente fame. All'una di notte "suonata" devi abbandonare ogni pretesa di palato fino e gradire le nefandezze di un cuoco che sogna già il letto di casa. Il menù (come un ultimo treno preso al volo) prevedeva hamburger con patatine fritte, oppure il fondo pentola di una zuppa d'aglio. Stoicamente ordinai la seconda, mi pareva naturale ed innaturale allo stesso tempo. Se dovevo morire quella notte per quello che avrei da lì a poco mangiato, l'aglio mi avrebbe fatto incontrare la morte da sveglio.
Non morii, ma la zuppa mi tenne parecchio ad occhi aperti. Aperti come il frigo bar dove l'acqua cominciava a scarseggiare, ma poco importava perché finita quella mi sarei attaccato al rubinetto del bagno. Me ne stavo appoggiato alla spalliera del letto e ripercorrevo la strada che mi aveva riportato in quella camera: c'ero io, ed i passi di Lorenz, Wege ed Omri. Avevo frugato dentro la tasca: avevo nome ed indirizzo dell'hotel. È ormai mia abitudine (raccolta negli anni) portare addosso il biglietto da visita dell'hotel. Quando sei in giro di notte, da un qualunque vicolo può sempre arrivarti una botta in testa. La mattina dopo non hai più il marsupio ma solo annebbiati ricordi. Allora il bigliettino può parlare a nome tuo.
La strada quel mercoledì era poco animata, ed i bar dalle vetrine oscurate mostrano poco o nulla delle donne dell'est, quelle dalla pelle che sembra non aver mai visto il sole, quelle stesse donne dell'est che per non molti euro si prostituiscono lì ad ovest. E mentre combattevo la sete ormai nel sicuro della mia camera, con la testa intatta, e una sete che non si spegneva, pensavo a quelle loro povere vite, molto più indigeste della mia zuppa d'aglio.


Pensieri cadenti

Mercoledi, 23 Gennaio 2013


Vals, le terme, un grande pianoforte, il contrasto tra il freddo e i volti degli ospiti esposti al sole. Quella sera nella hall blu notai degli occhi che nella penombra non smettevano di seguire le mie mani. Uno sguardo intelligente, con incastonato nell'iride lo stesso colore del cielo che alberga tra queste montagne. Così conobbi Conrad. Era in compagnia di una donna, e i suoi modi gentili ne amplificavano i lineamenti e il fare distinto. Nessuno dei due indossava abiti eleganti, sembravano entrambi appena fuggiti dall'ufficio, ma esibivano in maniera disinvolta una certa classe: un jeans portato come si indossa un foulard di seta avuto in dono da un sultano. Alla fine del concerto, senza aver scambiato una sola parola, eravamo amici.
"Domani ti porto le mie due fisarmoniche, vorrei un tuo parere", così mi disse, con lo stesso bagliore di gloria che hanno certi padri quando raccontano dei figli.
"Verrò io a trovarti", risposi: "due fisarmoniche sono pesanti da portare così in alto".
Cos'è la passione? Me lo chiedevo lì a Castrisch, mentre mi mostrava fiero i suoi figli a mantice, libri introvabili, vinili, il mondo della fisarmonica racchiuso in uno scrigno privato. Era un geologo di indiscusso talento, e dove c'era stata un’opera importante in quel territorio c'era passata sopra la sua mano. Di ritorno, in direzione dell'hotel, mi parve di essere dentro un documentario: mi narrava la storia di ogni pietra, mi svelava dove conduceva ogni sentiero, come a volermi consegnare le chiavi e i segreti dell'intera regione. Da quella bella giornata insieme passarono dei mesi. Quel martedì primo marzo lo aspettai durante tutto il concerto. A Berna non giunse mai. Pensai: "Il solito impegno improvviso, classico affrancamento da libero professionista". Un pizzico di stupida collera mi prese la mano. Nei giorni che seguirono non lo chiamai. Avevamo della musica da scambiare, oltre al piacere di rivedersi, e lui non si era presentato, non aveva avvisato. Qualche settimana dopo seppi da una nipote che il cuore proprio quel giorno aveva deciso di smettere di accompagnarlo, proprio tra le braccia della madre con la quale divideva la casa delle fisarmoniche.
E adesso qualcosa mi attendeva a Castrisch, oltre al mio senso di colpa, di stupidità, di dolore per non aver cercato un'attenuante, un motivo anche piccolo: perché tutto sarebbe stato meglio di quell'epilogo. Qualcosa mi stava aspettando. Il viaggio verso la sua casa fu lungo e triste, sapevo che non l'avrei trovato. Fuori dal treno scorgevo le rocce, fratelli e sorelle di quelle a cui lui mi aveva presentato, e che adesso mi lasciavano passare indisturbato.
Ricordo il silenzio di Castrisch, la calma dei muri, delle foto sopra i pensili che raccontano i tempi buoni. Ricordo me, seppellito nella sua poltrona, in compagnia di una madre e del suo dolore, senza troppe parole da aggiungere, con la certezza di non poter lenire un palmo di dolore.
Le facce dei barman sono carte topografiche. Custodiscono chilometri di boria e miglia di solitudini, e la sfrontatezza di quei vecchi danarosi che si accompagnano a donne troppo giovani, e delle anime in ebrezza che frugano nel sostrato di un bicchiere, al crepuscolo perenne del bar. Non esiste compagnia, solo compassione. Attraverso il bagliore delle bottiglie: whisky, brandy, rum, cognac e acquavite, filtravo la visione della fisarmonica, in mezzo a questo sporco, in mezzo a questo umano, non cercavo le parole di nessuno. La fisarmonica stava lì, inerte, a luccicare come un astro, lì, nella stessa sala dove quell'amicizia era cominciata. Dono e ricordo di un amico scomparso, aveva vissuto quella sera attraverso le mia dita. Pesante come una roccia, ora il mantice si apriva a librarsi fuori nella notte, tra quelle montagne e lande addormentate.
"Scusate, voi non la vedete?"
"Qualcos'altro da bere? il bar chiude".
"No, grazie…Spenga tutto".


L'ultimo giorno del mondo

Giovedi, 27 Dicembre 2012


Qualcosa mi persuadeva che una certa mediocrità sta nell'atto del ripetersi, e nell'incapacità di rinnovarsi. Mi venivano in mente certi cantautori, che come un'enorme ruota circense montata in periferia e senza asfalto, pur roteando sempre gli stessi giri armonici si vantano di aver scritto centinaia di canzoni, tutte sempre nuove. Ripensavo al mio vecchio professore di disegno geometrico, quando rivolgendosi alla classe proferiva: "Siete bestie! Che non vi passi per la mente di fare gli architetti! Di abomini fuori ne ho visti già troppi". Tornando alla cattedra con gli occhi al pavimento, quel giorno come altre volte disse sottovoce:
"Messina, vieni qui, che parliamo di Miles Davis".
Era sposato da quarant'anni con la stessa donna, ma non rivelava nulla di lei, solo un’aura, una brezza che nessuno aveva mai sentito, proprio come in quei telefilm alla "Colombo", dove in una fantasmagoria generale la moglie è un irraggiato spirito che tutto sa, che tutto può, con l'unico scoglio di non riuscire a materializzarsi nella pellicola. Lo immaginavo solo, chiuso in cantina con i suoi vinili lambiti solamente da bianchi guanti, e quell'alta fedeltà di frequenze, amplificatori a valvole che atterrano su pesanti balaustre di marmo, cavi preziosi come collane in oro. Nessuna oscillazione doveva aggredire la punta del piatto, i muri dell’edificio, la sordina di Miles. Lo immaginavo con gli occhi spalancati al buio e quell'enorme naso ad aquila, potente abbastanza da sollevare la testa, librarsi e volteggiare nel soffitto. Lo vedevo, in quel ritiro, a struggersi sulle note di "King of Blue" o su "Ascenseur pour l'échafaud". Una catasta di solitudine, di reiterati gesti, da vecchio insegnate di liceo statale, schivo, bonario e irascibile.
Presto imparai a conoscere anche le sue uniche tre giacche a scacchi. Vecchie di almeno vent'anni, come un’uniforme di perizia e mestiere sfoggiavano la fierezza e il piglio di un capo di alta sartoria che ha sbagliato la fermata nel tempo. Quando s'incazzava per un'ombra riuscita male tornava improvvisamente bambino, straparlava nel dialetto del suo paese, incollava le spalle al muro, come a proteggersi da curvilinei impazziti e punti di fuga sbagliati: retaggio forse della guerra e delle bombe degli alleati. Passato il pericolo andava alla finestra, portava le mani dietro la schiena e si afferrava un polso. Granitico come un monumento di pietra arenaria, squadrava fuori, ed io dal mio posto, attraverso il riflesso del vetro, potevo osservarlo senza usberghi, senza alcun filtro. Mi chiedevo spesso cosa stesse pensando: Le Corbusier, Frank Lloyd Wright, Miles Davis, il preside, la moglie. Fu lui a salvarmi con un trentasei politico, durante la maturità dell'86, poiché quel non classificato in matematica perdurato in tutti gli anni del liceo era un affronto a cui la commissione non voleva sottostare.
Aspettando la finta fine del mondo quel 21 dicembre, pensavo ai piccoli conflitti, a quelli grandi, ai medi, alle borse mondiali, alla politica, la finanza, alle lobby del tabacco, delle armi, della fede, a tutti quei santi e santità inutili, all'amore ad ogni costo, a quelli che scopano in auto di nascosto, all'oro nero, alla balordaggine di certi cantautori. Pensavo a tutto il mondo, anelando un po’ l'idea di cataclisma democratico. Pensavo all'Africa: sollevandosi a nord, avrebbe schiacciato come una noce l'Europa. E l'India: la vedevo sbriciolarsi come polvere d'oro per ricoprire e bonificare la steppa Russa. L'America latina, come un'omelette alla francese, rivoltarsi, fino a ricoprire l'intero Canada.
In quell'enorme pandemonio, forse da qualche parte le ossa del mio professore di disegno tecnico stavano ancora perfettamente in ordine. La fine del mondo mortificata da una naturale disciplina, dalla passione, dall'inesauribilmente piccolo, dal vero, dall'essenza. Un'unica verità, di eccellenza cosmica, di perfezione divina, di chi per rispetto alla bellezza muore indossando prima i guanti.


Game over, gun love.

Lunedi, 10 Dicembre 2012


In amore ero stato un giocatore spericolato, con l'unica destrezza di saper congedare il tavolo un secondo prima di perdere ragione e rispetto. Tranne in una circostanza, ero stato dunque sempre io a gettare le carte, anche quando sembravano promettere un minimo di gioco corretto. Questo non faceva di me un eroe, e non mi conferiva alcun onore, ma in ogni circostanza, anche la più maledetta, avevo imparato empiricamente qualcosa. Avevo rimesso il cuore in cassaforte, ora l'unico passatempo era scrutare gli affetti altrui. Come uno stetoscopio vivente auscultavo l'aria, cercando di captare un qualunque segnale.
A Gerusalemme, tornato in hotel, l'uomo seduto al banchetto davanti all'ingresso mi borbotta qualcosa in ebraico. Provo a fargli capire che non capisco. In un inglese "sdentato" mi chiede: "you have gum?". Metto le mani dentro la borsa, frugo, cercando tra cavi e partiture una gomma da masticare. Vedo un luccichio, un bagliore improvviso. Da dietro la giacca l'uomo sfila una pistola e mi ripete con tono impaziente: "you have gun?".
Quando incontri una pistola finisce che capisci tutto, in qualunque lingua.
Lo tranquillizzai, mostrando l'interno della borsa, avevo perfino trovato i chewing-gum. Sembrò non bastare. In effetti il mio marsupio, nascosto sotto il maglione sul fianco sinistro, sembrava in tutto e per tutto somigliare al suo fodero. Mostrai anche quello. Non seguì nessuna reazione: voltò le spalle, la pistola sparì, tornò a sedersi e a frugare nel telefonino. Riposizionai il marsupio, trattandolo come un’arma finora a me sconosciuta, mi recai verso l'ascensore, chiusi le porte sulla vicenda. La mattina dopo, attraversando la reception, mi ricordai della notte prima e mi preparai ad incrociare nuovamente quello sguardo ruvido. Il banchetto era lo stesso, simile in tutto e per tutto a quelli dei comizi elettorali visti nei telegiornali. Ma a "filtrare" gli avventori, non c'era l'uomo con la pistola, bensì una giovane e minuta ragazza. Gli occhiali spessi le rimpicciolivano di molto gli occhi. La camicetta maldestramente stirata mostrava le piaghe e le pieghe della degenza nel cassetto. I pantaloni blu oltremare cadevano appena sopra un paio di mocassini color terra di Siena bruciata, e male si adattavano a tutto il resto. La giovane mostrava una certa sofferenza, come se, scollegata dal posto di lavoro, stesse scrivendo un messaggio al sole che fuori sembrava aver chiamato per una passeggiata. Non ci fu alcun controllo, nessuno sguardo, la sua testa cascava fin dentro il telefonino, e lì giaceva pesante. Uscito fuori, andai a sedermi nel piccolo bar di fronte. Lì il caffè era migliore, quello nel termos gigante del buffet dell'hotel mi ispirava un detergente per le scarpe. Mi sedetti al primo tavolino libero, ordinai un caffè, mi chiesero il nome, risposi infastidito: "Cos'è per Dio? Ancora un controllo? Voglio solo un caffè!".
Con un pizzico di sarcasmo mi risposero: "Bene, se vuole il caffè deve dare il suo nome perché la chiameremo al microfono per venirselo a prendere! Qui funziona così, prendere o lasciare".
Accettai quella sgradevolezza pensando che fosse il prezzo da pagare per un caffè migliore. Stare lì seduto aspettando di essere chiamato mi ricordava l'ufficio di collocamento, ma stavolta pensavo avrei almeno ricevuto qualcosa in cambio. Tre minuti dopo sentii dagli altoparlanti: "Anatello please!".
Tutto sommato mi era andata meglio che in Germania. Lì – non ho mai capito il perché – il mio nome nei flyer dei concerti, negli articoli dei giornali, nella presentazione prima e dopo il concerto trasmigra al femminile, diventando "Antonella".
Sorseggiavo il caffè osservando il viavai della gente fuori. Ad un tratto, ecco la ragazza del banchetto guardare a destra e a sinistra della strada, attraversarla e piombare nel caffè degli altoparlanti. Uno sguardo fugace dentro al locale, poi, riconosciuto un viso familiare, si mosse nella mia direzione. Si bloccò, un tavolo davanti al mio, e senza convenevoli cominciò animatamente a parlare con un giovane ragazzo che maneggiava il telefono. Per ovvi motivi non capivo nulla, ma più lei alzava la voce più lui sembrava scrutare fuori dai vetri e dentro lo smartphone, proprio come se quella presenza e quella voce fossero un rumore urbano a cui ormai per assuefazione rimaniamo inermi. Il monologo della ragazza si animava vorticosamente, a tal punto da attirare l'attenzione dei tavoli lontani. La mia tazza era ormai vuota. Mi pareva di stare a teatro, ad una di quelle rappresentazioni scolastiche drammaticamente dilettantistiche. Pensai di alzarmi e di risparmiarmi almeno il finale, quando sul fianco – il lato che non avevo visto uscendo – vidi chiaramente la canna di una pistola: lì, proprio tra la camicetta e i pantaloni blu oltremare. Mi chiedevo come potesse essere finita un'arma al fianco di quella che a me pareva una ragazzina. Lei imprecava con l'anima sotto i piedi e gli occhi fuori dalle orbite. Adesso sembravano non essere poi così piccoli.
Di scatto portò entrambe le mani al fianco, in direzione dell'arma. Pensai a quanta poca fortuna ci vuole a trovarsi nella traiettoria di un proiettile sparato per un amore che nemmeno ti appartiene. Ma forse era il destino che voleva chiudere i conti con me, per gli amori e le storie che avevo travolto e stravolto. Vidi una roulette, stava roteando vorticosamente accanto a me, era una visione, come un chiosco di bevande fresche alla fine di un deserto. Fu un attimo, partì il colpo. Al posto di un proiettile la ragazza spara un anello sfilato senza difficoltà dalla mano, la stessa mano che si era appoggiata sul cane della pistola. L'anello come un proiettile impazzito rimbalza sul mio tavolo, per poi carambolare dietro, e sparire nella fitta moquette. Fatto dietrofront come un plotone d'esecuzione che ha eseguito la sentenza, la ragazza volta le spalle alla scena per ripetere il percorso in direzione opposta, verso il banchetto dell'hotel. Il ragazzo continuava a fissare fuori: nulla di quel teatro sembrava lo avesse distolto o scalfito. Mi alzai, come uno appena graziato da un meteorite e dalla mala sorte. Tornai al banco: "Un altro caffè, per favore".


Il tacchino violinista

Sabato, 01 Dicembre 2012


Avendo dormito tre ore, e male, giunto in aeroporto non avevo granché voglia di parlare. Ero una statua, un altorilievo di rimacinato duro. Quando sto zitto chi mi sta vicino comincia ad agitarsi come se la mia bocca occultasse un dossier militare, oppure una di quelle confessioni che precedono l'estrema unzione. Niente di tutto questo, avevo solo dormito poco, pensato troppo, e nella direzione sbagliata. Gli aeroporti di notte sono in qualunque stagione freddi, e ricordano da vicino la sala d'attesa dei reparti di oncologia di certi ospedali. Mi trovavo in coda per l'imbarco. Dietro di me uno sparuto gruppo di uomini sfondava il muro del silenzio con un improvvisato "carnevale di Rio", ma alle cinque del mattino all'aeroporto di Basilea nessuno sembrava gradire, io per primo. Probabilmente colleghi d'ufficio di una compagnia d'assicurazioni, avviliti da fidanzate sempre ben pettinate, o da bonus non conseguiti, avevano il fare di chi avrebbe raggiunto una di quelle località dove in hotel trovi "all inclusive": condom, sacchetti per il vomito, e un balcone per defenestrarsi verso la piscina sotto. Uno di questi aveva una voce che sembrava un violino suonato da un archetto arrugginito, e strillava a trenta centimetri dal mio orecchio. Ripensandoci il suo timbro di voce ricordava vagamente anche quello di un tacchino, già, un maledetto tacchino avvinazzato. L'allegra compagnia sganciò una delle corde che designavano la fila per l'imbarco, saltando così una decina di sbadati che non si accorsero di nulla. Quelli dietro cominciarono a borbottare, ma come insetti minuscoli, nessuno ebbe pubblicamente nulla da eccepire. Il frastuono che faceva il gruppetto era insopportabile. Il capobanda sembrava farsi beffe di tutti. Normalmente a vent'anni avrei contato fino a dieci, poi con la fredda opacità di un killer la cui tecnica era stata perfezionata in un qualche sobborgo di Palermo, lo avrei sbattuto al muro, e riportato indietro di dieci caselle. In quegli anni avevo maturato l'aggressività di un pitbull con il prurito sempre sulle gengive e una luce poco rasserenante nello sguardo. Non feci nulla del genere. Ero cresciuto e crescendo avevo perso, uno ad uno, quei maledetti denti che lacerano la carne, anche la mia. Continuavo comunque a ripetere a me stesso: "Puoi farcela, tieni le mani in tasca". Con me, a tracolla, avevo la mia piccola borsa con dentro chewing-gum, filtri anti-pressione per le orecchie e spray decongestionante per il naso. Il tutto ben nascosto sotto la giacca, poiché easyJet, come un odierno Erode, lascia vivere un solo bagaglio a mano, per passeggero. La fisarmonica trascinata su un mini carrellino stringeva le spalle per sembrare più piccola e volare con me in cabina. L'imbarco su un aeromobile include quasi sempre, oltre lo stress proprio, quello altrui. C'è la corsa ad accaparrarsi i posti migliori, lo spazio sulle cappelliere, il tutto condito da bambini urlanti da sonno perduto, e pannolini ormai saturi.
Ho sempre trovato che le hostess abusassero della propria autorità, mentre gli uomini hanno un fare più amabile, morbido, quasi materno. Sul volo quella mattina c'erano entrambe le categorie. Il passeggero seduto accanto a me russa ricordandomi il ritmo della vecchia Prinz di mio padre. Un bambino strilla come un macaco giapponese strappato dall'albero natio. Una donna con la tosse ci annuncia di essere una fumatrice incallita. Con l'andare del tempo gli odori e le puzze cominciano a familiarizzare. Gente che inizialmente si scruta con sospetto adesso ti sorride e ti offre caramelle aromatizzate per la gola. Chi vola per Israele sa che ad un certo punto il veicolo si anima, e i praticanti ortodossi cominciano quasi simultaneamente ad aprire le cappelliere per tirare fuori tutto l'occorrente per la preghiera. Forse i ventimila piedi d'altezza in cui ci trovavamo stabilivano una connessione più stabile con Dio. Con una cordicella di cuoio legano sulla fronte una sorta di piccolo cubo di legno, che viene a sua volta fissato e ancorato come una biscia: al collo, all'avambraccio ed infine al dito medio. Il rituale si conclude con la copertura del capo attraverso un piccolo scialle e l'apertura del Libro delle Scritture. Poi comincia il "dondolio" tipico con il tronco, tra la testa e il libro. Questo rituale rievoca una certa familiarità con i musicisti più attenti, quando sul palcoscenico sfilano i cavi e organizzano le partiture, con la sola differenza che il cubo sulla testa è la paga a fine serata, o la fidanzata in prima fila. Quando tutto sembrò stancante, il pilota annunciò finalmente la discesa. Le mie orecchie reggevano bene, qualcuno dietro si lamentava. Appena le ruote toccarono la pista scoppiò un tenero applauso per il pilota. Ma per ovvi motivi non seguì un bis, ti immagini un pilota che riporta in quota l'aereo per godere di un ultimo applauso? Due minuti dopo, era il caos, come quando scocca l'ora dei saldi ai magazzini Lafayette di Parigi: aperte le porte la gente si catapulta sugli oggetti come per mettere in salvo la propria vita.
Quelli del lato finestrino generalmente si dividono in "senza speranze" (perché bloccati dai primi), e "guru" (aspettano che la mandria passi per poi a loro volta scendere nella più assoluta indifferenza). Io quel giorno facevo parte della mandria, anzi ero un bisonte abbastanza in testa. Quando vuoi evitare danni al tuo strumento puoi trasformarti in qualunque pesante quadrupede. La pellicola sembrava girare al contrario, eravamo nuovamente in coda per il controllo documenti. Poi ad un tratto rieccolo: il tacchino violinista! Nuovamente all'opera, con quel suo mood stancante, dava spettacolo e noia come le prime mosche nelle prime giornate di primavera. Ad un tratto il colpo di scena, sentii chiaramente e distintamente che stava urlando nella mia direzione: "Antonio !!! Antonio italiano !! Tu ! Antonio!!!" Ci voltammo tutti. Due file più sotto, stava proprio gridando e indicando me.
Dissi ok, non so che problemi ha quest'uomo ma se voleva farmi incazzare, ebbene, c'è riuscito. Fatto cenno ai miei amici di occuparsi dei miei bagagli e della fisarmonica, serrai la mascella, e come un salmone che risale controcorrente mi feci largo tra la gente. Ero quasi davanti a lui e abbastanza arrabbiato. Non feci in tempo ad aprire la bocca che: Paff..!! Come con un’arma dal potere gelante mi colpì al petto con il mio passaporto ! "Antonio, ti è caduto il passaporto! Eccolo, amico!".
Esitai un momento, perché non avevo più sentimenti a disposizione. Aspettai che il sangue tornasse a distribuirsi per tutto il corpo.
Tirai un sospiro. Pensai a quanto è stupida e disorganizzata la violenza, e l'umore serio. Lo ringraziai con tutta la riconoscenza che potevo trovare in quel momento, poca, per uno che ti ha appena graziato dall'inferno della burocrazia. Riscendendo lungo il fiume di persone mi sentii stupido, perché la natura umana nella sua forma più leggera mi aveva sfiorato e io, per sbadatezza, o per carattere plumbeo, quel giorno, non l'avevo riconosciuta.


Al calar del sipario

Venerdi, 23 Novembre 2012


Alla fine le emozioni si sommavano come fotogrammi di un film. C'ero io al pronto soccorso con la schiena da riparare, ed un giovane medico che all'analgesico avrebbe voluto integrare un ticket gratis per il concerto della sera. C'erano i miei compagni musicisti che ballavano al bar degli Africani a La Chaux-de-Fonds. C'ero ancora io, e Paul per le strade di Coira alla ricerca di una zuppa calda prima del soundcheck. C'erano i tecnici, le cui vite imperturbabili e impenetrabili mostrano lo stesso rivestimento dei flight case, forse perché in quel maledetto ruolo non c'è manco la piccola beatitudine che scaturisce dal palcoscenico, e nessuno che, posati gli attrezzi, ti dica con un barlume di luce riverberata negli occhi: "grazie, è stato bellissimo". C'era il pubblico, che come la marea, va e viene. Mi piaceva quell'essere macchina sul palcoscenico e burro per le strade dei posti che visitavo. Da quando il mio atelier vive, ho a mia insaputa cominciato la ricerca di oggetti sparuti. Roba che non stavo cercando. Loro vengono a me, calamitati dalla mia sensibilità, ed io a sua volta vado a loro, come un magnete attratto dalla ricerca di un sentimento di pienezza, che non ho ancora ben contemplato. Quel pomeriggio avevo mollato la fisarmonica sul palco, e con passo felpato abbandonato lentamente il palcoscenico. Questo, come in una foresta tropicale, era una palude di cavi da collegare, fili e radici che al posto di tronchi si aggrappavano a casse, monitor, amplificatori, luci, strumenti musicali. Adesso ero fuori ed annusavo il boulevard come un segugio segue una traccia, cercando di capire cosa potesse offrirmi. Il vecchio della brockenstube (robovecchi) parla solo francese, ed io entrando in quel mondo dimenticato avverto subito l'odore rugginoso del ferro vecchio, dei decenni di umidità che albergava nelle tappezzerie, dell'odore di musica pressata sotto forma di vinile, di vecchi almanacchi, e di animali impagliati che ricordano i pendolari tristi delle stazioni della Svizzera interna. Mi muovevo come su cocci di vetro, cercando in quei pochi centimetri di non scaraventare nulla per terra. Quel vecchio mi aveva accolto come si accoglie la fortuna che entra dalla porta principale. Aveva una gamba offesa e affidava il suo pesante corpo al manico di un bastone di legno. Non ho mai avuto talento per le lingue straniere, ma la gentilezza si traduce e comprende subito, in qualunque idioma. Mi sussurrò come un segreto impronunciabile: "Caro signore, oggi troverà tutto al 50%!". Aveva Il fare di chi aveva vissuto tempi migliori, ma la dignità e la fierezza albergavano ancora in quelle ossa stanche. Quando voglio, io so sorridere, e quel giorno non risparmiai, abbozzai perfino due parole in francese, e partii alla ricerca di ció che non stavo cercando. Come in tutti i negozi di robivecchi, c'è tutto e niente. C'erano vecchi ferri da stiro a vapore, neri, come il pane bruciato, un telefono di bachelite fredda e dura in tinta rosso carminio, due bambole di plastica spettinate di cui una a gambe all'aria probabilmente vittima della morbosità di chi spera di trovare chissà quale lingerie sotto. Ed ancora, un vaso da notte, attrezzi da dentista, tazze da the, da caffè, bicchieri da tavola, da liquore, flûte da Champagne, bicchieri da cocktail, a coppa, a tulipano, a calice, shot, quella grande tavola che li ospitava sembrava la skyline di una moderna metropoli. Volevo essere gentile con quell'uomo e utile alla sua causa, alla sua sopravvivenza. Finsi a me stesso di essere interessato a quello sconto, come un bambino dinnanzi ad un bussolotto pieno di canditi. Ma più mi addentravo, meno riuscivo a trovare qualcosa che fosse plausibile da acquistare, soprattutto agli occhi di quell'uomo, perché non doveva sembrare una buona azione, ma bensì un servizio reso. La vidi. Una piccola bottiglietta smerigliata, dal classico disegno un po' anni 30. Svitai il tappo e avvicinato il naso provai a capire cosa avesse contenuto nel corso di quei decenni. Forse alcool, forse un profumo, acqua al tamarindo, sciroppo d'acero, o forse un potente veleno. Il tappo era color ottone e una volta sollevatolo senti solo odore di polvere. Il tempo aveva spento ogni ricordo. La posai nuovamente come si muove un pezzo vincente sulla scacchiera. Forse prima delle prove, di una cena, di un concerto e di un bis non sarebbe stato intelligente e comodo portarsi dietro quel piccolo delicato oggetto. Avevo deciso, sarei tornato il giorno dopo. Affrettai il passo anche perché il telefono cominciò a vibrare, segno che i tecnici mi stavano cercando per il mio soundcheck. Sfoderai il sorriso delle grandi occasioni e disse all'uomo che nel frattempo sfogliava una rivista di moda anni sessanta: "tornerò domani!". Mi regalò ancora un sorriso, allo stesso tempo una delle due palpebre mezza abbassata sembrò dirmi: "si fa per dire, non tornerai più". Il giorno dopo consumai la colazione come un rituale meccanico e mi avviai verso il negozio, quella palpebra volevo vederla alzarsi, come la saracinesca di un negozio. L'aria era freschissima, ed io nel mare di gente che si muove al mattino sembravo uno che avesse qualcosa di importante da fare. Aperta la porta l'uomo dalle stampelle si mise una mano sulla lunga barba e mi sorrise con curiosità. Andai dritto verso la piccola bottiglia, l'ultimo scaffale sulla destra, proprio dietro... Oddio! era sparita! guardai ancora meglio, ricordavo tutti gli oggetti a lei fratelli, ma di lei proprio nemmeno l'ombra.
"Excusez-moi monsieur,
la piccola bottiglietta qui, era proprio qui, non riesco più a trovarla... "
L'uomo si passo ancora una volta la mano sulla barba: "incredibile" rispose. "Mezz'ora dopo di lei, cinque minuti prima della chiusura, è entrata una giovane donna e l'ha comprata!
è l'unico oggetto che ho venduto negli ultimi 3 giorni!
ma guardi lì, lì in basso ne troverà delle altre."
Finsi di guardare con interesse poi abbozzato l'aspetto di uno che è arrivato secondo sul podio della vita dissi: "non importa.. era destino".
Tornai all'hotel, mi tolsi le scarpe e mi distesi sul letto. Le lenzuola erano fredde e la luce era quella di un quadro di Jan Veermer. Fissando il soffitto ripensai a tutta la storia. A quella donna che in negozio con migliaia di oggetti a disposizione aveva scelto proprio il mio. Che faccia aveva? che storia l'accompagnava, ma soprattutto, cosa avrebbe fatto della piccola bottiglietta? avrebbe accolto un profumo, acqua al tamarindo, sciroppo d'acero, o forse un potente veleno?
Quando mi svegliai ricordai che era tutto vero, e che sul comodino e nella mia vita c'era di tutto, tranne quella bottiglietta.


Un giorno senza miracoli

Lunedi, 19 Novembre 2012


Un' antichissima leggenda vuole la città di Pisa sorella giovane di un' omonima città greca. I nostri occhi e la nostra mente sono abituati a veder nascere interi quartieri e centri commerciali come fiori di campo su campi privi di fiori. Riflettendoci sopra, come per il concetto di infinito, l'infinitamente piccolo certe volte è duro da immaginare. La scintilla che innesca un incendio, un virus capace di uccidere milioni di cellule sane, il primo proiettile sparato in una guerra, un solo sguardo capace di farti piombare nell'amore per sempre. La prima casa che fondò Pisa certamente era scomparsa da secoli, e quelle che guardavo affacciarsi sull'Arno erano lontane pronipoti dal viso interamente rifatto. Me ne stavo cullato e piegato sopra il palcoscenico a collegare i cavi alla fisarmonica e pensavo a ciò che rende così speciali e diverse certe città italiane, non tutte, molte. Il rinascimento ha prodotto dei miracoli ma siamo sicuri che se staccassi dalle fondamenta palazzo Strozzi a Firenze, e lo piantassi come un albero ad Amburgo otterrei la stessa magnificenza? Cosa ne verrebbe fuori? Pensavo a qualcosa di osceno, a quelle accozzaglie e brutture collettive che ormai siamo abituati a vedere spesso nei musei d'arte contemporanea. Collegando l'ultimo cavo alla presa della corrente elettrica l'idea si accese sopra la mia testa: la luce! è tutto lì. L'armonia delle architetture di qualunque epoca in Italia ha come additivo segreto la luce, e peccato che in nessuno dei tre volumi di storia dell'arte italiana a Giulio Carlo Argan fosse passato per la testa di dirmelo. Pensando a Roma mi veniva in mente ora Camille Corot e quel suo color ruggine che scalda e sporca i muri più di un barolo d'annata. Quel rosso se lo porti oltre Chiasso si spegne. Un sangue che coagula subito, che muore per carenza di luce e forse pure di storia. Tutti questi messaggi mi dicevano che non stavo bene, campo dei miracoli così vicino pareva afferrarmi per il bavero della giacca e portarmi davanti ad uno specchio a mostrarmi il ciclo della vita, la mia compresa. Ora il battistero, ora la torre, il muro che annuncia il cimitero. Non c'ero stato ma avvertivo quella porta spalancata sulla storia, come un meteorite sopra la testa. Generalmente quando mi trasformo in una spugna e comincio a captare segnali da tutte le parti è un chiaro sintomo che qualcosa deve accadere, e stava accadendo, lì, da qualche parte, oppure a mille chilometri da quella luce, e come l'impianto audio del concerto, quel qualcosa stava per essere acceso. Il concerto defluiva come il fiume accanto, fino a quando il buio non ci avvolse tutti. Nell'ombra bisognava trovare un'altra magnificenza, un appiglio di bellezza, ma due in un solo giorno sarebbe stato impossibile, e così fu.


Sabbia e Mocassini

Martedi, 13 Novembre 2012


Prima del concerto ci sarebbe stata tutta una mattinata da smaltire. D'estate i musicisti jazz avvertono sovente il richiamo del mare, ma sempre e solo quando c'hanno da suonare o comunque un altro impegno conclamato, così nei tempi di magra preferiscono smaltire le giornate davanti al monitor di un pc o si godono le città semideserte e le telefonate di quelli che distesi sulla battigia pensano sia "chic" telefonare ad un sassofonista o ad un pianista in pantofole.
Quel giorno avevo anch'io con me il costume ben camuffato sotto gli abiti della sera prima. Il ristorante a dieci metri dall'acqua offriva i suoi tavoli liberi ed io alle 11.00 del mattino come uno sbucato da una miniera di carbone chiedevo un tavolo libero per me e per la mia fisarmonica. Quest'ultima, come il sottoscritto dal chiuso del suo tabernacolo sembrava non gradire l'afa e la visione di quelli che in spiaggia scrutano il giornale dello sport e la cellulite da un'improbabile fessura dei ray ban. In ogni caso io seduto al tavolo con sopra il canneto e la fisarmonica sotto il tavolo saremmo stati entrambi meglio all'ombra. Io ero impegnato ad osservare il mare attraverso un bicchiere vuoto. Lei, la mia 120 bassi sembrava gradire la brezza marina e la vista sul mar Tirreno, sempre meglio che starsene al chiuso nel fuoco del bagagliaio. Può uno strumento musicale avere caldo? probabilmente sì, certamente, se le cartilagini delle voci sono fatte di cera, in ogni caso non avrei voluto scoprirlo nel bel mezzo di una tournée. Quando dissi agli altri che non mi sarei tuffato qualcuno tirò un sospiro di sollievo perché un volontario vigilante degli strumenti e degli effetti personali in quelle circostanze è più prezioso di una bibita ghiacciata. A pensarci bene il vero mare sembrava quello sulla spiaggia, in decine di centinaia come sul set per la pubblicità di un gelato smaltivano il caldo e la noia sotto il sole. Io come il regista malaticcio di un film in bianco e nero osservavo il set che non avevo voluto. Ordinai il mio solito chinotto, con la tracotanza di chi almeno lì (in Toscana) l'avrebbe trovato e ricevuto, oltralpe quando chiedi un chinotto arricciano il naso e guardano il cielo, poi ti propongono apfelsaft (succo di mela) o ancor peggio la Rivella, mai bibita fu più detestabile (almeno per il sottoscritto). Andare al mare e non sentirne il rumore è come andare al cinema bendati, ma il caos di radioline, suonerie di cellulari e chiacchiericcio generale era così alto e vorticoso che quando arrivò sulla strada il camioncino con megafono che vendeva tappeti non sembrò essere totalmente fuori luogo. Pensai, con un pizzico di magone, che per quel giorno non avrei visto mestiere più disgraziato di quello. In pieno Luglio, in spiaggia, a chi verrebbe in mente di comprare un tappeto orientale?
Quella dodecafonia imponeva di isolarsi, misi le cuffie con la sinfonia n.1 di Charles Ives, e pensai che i musicisti in costume vanno un po' compresi. Le occhiaie, il costume sbiadito da anni di cassetto, le gambe storte piegate dal peso dei Marshall.... e i pasti in autogrill che ti massacrano il corpo, più della mente. Tutto sommato i compagni di quel viaggio si difendevano bene. Quando tornarono al tavolo, gocce di mare fresche mi raggiunsero, e per un attimo pensai anch'io di essere con loro, lì come tutti, al mare.

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