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Il cielo sotto Berlino

Venerdi, 04 / 10 / 2013  


Suonare a Berlino ha sempre un sapore ineguagliabile. Ha il gusto del salato in ciò che è sopravvissuto alla guerra. Ha quello leggermente dolce e mielato del moderno, che come un dessert germoglia e lievita tutt’intorno. Delia sembra uscita da uno di quei film che raccontano della capitolazione del Terzo Reich. I suoi occhi color ghiaccio e il vestitino semplice, d’altri tempi, sembrano mutare il luccichio delle corde, e del legno scuro degli archi, in mitragliatori e fucili di precisione in dotazione alla Resistenza. I suoi acuti, come ordigni esplosi in lontananza, fanno vibrare la cristalleria della casa e mi obbligano ad allontanare le mie orecchie dal bersaglio. Il salone delle prove mostra grandi quadri d'arte moderna, e fila di libri ingialliti. Goethe, Schiller, Hesse, Mann, Schopenhauer, come un esercito ordinato e pacifico, sfilano in silenzio su grandi scaffali a muro. Immersi in questa cartolina sbiadita proviamo a dare ai testi di Tucholski un suono meno marziale. Ci riesce bene il violoncellista, che ad ogni curva pericolosa della musica e del testo, come in una pellicola di Dino Risi, sorpassa e ride.
Il giorno dopo, al concerto, anche il pubblico trova il tempo di sogghignare divertito, tanto che il bis rappresenta per noi una sorta di liberazione. Lo spettacolo piace, dunque la guerra delle nostre preoccupazioni si proclama finita. La stazione di Berlino sembra un moderno hangar. Una perfetta antinomia architettonica, dove è lecito chiedersi cosa ci fanno dei treni, in un posto per aeroplani. Dopo aver acquistato il biglietto che mi riporterà ai miei affetti, mi soffermo a contemplare la luce che sfonda le vetrate. Fuori l'ambasciata svizzera è un'isola che si erge da uno sterminato spiazzo, privo d'acqua per mancata marea.
Gli Inglesi e i Russi con precisione chirurgica l'hanno lasciata lì, integra come un enorme pezzo di formaggio Emmental senza buchi.
Una cosa, in tanti anni di mestiere di musicista, l'avevo capita, e cioè: il nostro lavoro consiste nel mangiare quando non si ha fame, e nel non poter dormire quando si ha sonno. Per quel giorno avrei assecondato con oculatezza almeno lo stomaco.
Il tavolo del ristorante che avevo scelto si affacciava proprio su quella luce che tanto mi piaceva. Tutta gente distinta, in distinti abiti di lavoro: un paio di Giapponesi, uomini in giacca e tablet, bambini con smartphone. Io con il mio giubbotto di pelle, lungo fino al ginocchio, sembro un maresciallo delle SS che recita in un teatro poco lontano. Nessuno sembra farci caso.
La cucina non è male, il sole e il panorama aggiungono una stella "gourmet" al petto del cuoco thailandese.
Dalla porta secondaria si scorge la figura di un barbone; anche Berlino ne possiede ormai tanti. Sembra indossare tre cappotti, uno sull’altro, tutti rovinosamente lerci. Questi stridono chiaramente con il tepore del sole che oggi scalda indistintamente tutti, gratis. Dalle maniche sporgono poco le mani, di queste si distingue benissimo il contorno delle dita, poiché la sporcizia ne traccia perfettamente il disegno. La lunga barba ha un colore indefinito, una sorta di ocra, spenta, mista ad un bianco ingiallito. Ricorda in tutto e per tutto il colore di quei canarini che hanno vissuto in cattività, piccole gabbie poste in cucina, e che poco hanno avuto a che fare con le cime degli alberi e la natura.
L’ingresso del barbone nella sala genera un disgusto generale, come se non bastassero le metropolitane o gli angoli delle strade, a mostrare quelle facce bruciate dal sole o dai fumi dell'alcool. Il primo istinto della gente è quello di avvicinare la portata al petto, come a proteggerlo dalle sillabe che quel disgraziato potrebbe involontariamente sputarci sopra. Il passo successivo è quello di guardare altrove, perché è risaputo che contraccambiare lo sguardo di uno sciagurato è come implicitamente chiedere: "cosa vuoi? ".
Io pur essendo il più vicino alla porta rimango immobile, un po' per sfidare il mio senso igienista, un po' perché tutto quel panico per un uomo, la cui unica colpa è di non incontrare una doccia da troppo tempo, mi pare francamente eccessivo.
L’uomo, apparentemente imbarazzato quanto noi, tiene ben serrato tra le mani un panino, e con questo comincia a girare e frugare tra i tavoli.
Improvvisamente si blocca sul tavolo dei Giapponesi. Questi, intenti a maneggiare la loro ipertecnologica macchina fotografica, insieme al personale di servizio sono gli unici a non essersi accorti di quella presenza incongrua. Proprio sul tavolo di questi ultimi, il barbone sembra trovare cosa stava cercando: infila le dita lerce nel panino e lo apre. Si scorge un’unica fetta di formaggio fuso, i bordi scuri ne testimoniano con molta probabilità le tante ore di abbandono dentro uno dei tanti cestini della stazione. L'uomo prende a stento per le dita gonfie e le unghie lunghe il piccolo porta sale in vetro e lo agita scompostamente sopra il panino. Senza tradire alcuna emozione lo richiude, e come un cliente, un uomo, una persona qualunque si dirige verso la porta, la apre e scompare nel vortice caotico della stazione.
Tutti sembrano rianimarsi, e tranquillizzarsi. La normalità torna ad affollare il ristorante. Io ripenso a quell'uomo, all'intera scena. Un pizzico di sale: questo mancava dunque a quel panino raccolto dalla spazzatura. Tutto qui.
Esco dalla stessa porta per mescolarmi come tutti in quell'enorme minestrone di esistenze condite e scondite. Mentre cammino penso che la vita sì, può essere parecchio amara, acida, acre, ma non necessariamente sciapa.

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