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La tratta delle scarpe

Sabato, 14 / 07 / 2018  


L'odore delle melanzane arrostite giunge senza avviso dentro il mio naso, spalancando una porta sul passato. Ho sempre discretamente e segretamente odiato l'estate, credo che questo sentimento avverso verso quel qualcosa che invece tutti amano, si sia accresciuto con la mia infanzia e successivamente si sia amplificato con la pubertà. Se nasci e vivi a Palermo, andare al mare diventa un lavoro interinale; l'abusivismo ha reso il mare distante ad ogni latitudine. Le spiagge più accessibili sono un girone dantesco sul quale si riversa ogni sorta di scarto umano. La gente in spiaggia mostra sempre il peggio di se, e la spiaggia di Mondello non si sottrae: appaltata e sezionata da sempre in concessioni massoniche di gattopardesca memoria, con i suoi tratti vip o a pagamento, delinea una spaccatura universale fuori e dentro il mare. La burocrazia e la prevaricazione al sud sono un Mosè cinico e corrotto. Questi adempie la sua potenza e prepotenza nella più gettonata delle esibizione: la spartizione delle acque. Da noi, da una parte raccoglie il mare, dall'altra deserto.
Io non avevo mai il costume adatto, la necessità di abbandonarmi inerte al sole, di risolvere rebus, e trovare parole da incrociare, non ultimo elemento: non sapevo nuotare. Ricordo quella volta che mi presentai in spiaggia in mocassini e calzini, d'altronde ho sempre avuto scarpe per una sola occasione: la vita.
Qualunque altro tipo di scarpe, ad esempio; aperte con la sottile gomma sotto, avrebbero fatto a pugni con i pantaloni, con la frizione dura della Renault 5, e mi avrebbe esposto al pensiero di quei vetri roventi che il solito debosciato (mai estinto) ha infranto sugli scogli la sera prima. Ricordo la moda dei famigerati zoccoli del dr. scholl.
Con il tempo il legno assumeva alla base un inquietante colore bruno Van Dyck; una patina grassa spessa qualche millimetro che se ben analizzata ed esaminata avrebbe potuto svelare ogni passo falso, ogni tentennamento spaziotemporale. Quell'improvvisata arte fiamminga si mescolava e amalgamava dunque al piede, fasciandolo strettamente ad un odore funesto. Eppure queste scarpe godevano e vivevano sotto un alone mediatico di salute, un vessillo del naturale, di aria campestre, di vita ortopedica, e non ultimo: della perizia terapeutica di un dottore che nessuno aveva mai visto o sentito parlare: il dott. Scholl.
A palermo d'estate queste te le rubavano direttamente mentre stavi camminando. I malavitosi del quartiere avevano sviluppato una raffinata tecnica calcistica che consisteva in un colpetto al tacco dietro: via il primo. Lo vedevi accelerare per poi carambolare sotto il marciapiede. Il secondo lo consegnavi spontaneamente (con le buone o con le cattive maniere), forte della consapevolezza che averne uno solo non avrebbe giovato né a te, né ai "malacarne". D'inverno i figli dei dentisti, dei sindacalisti e della classe "radical chic" dovevano invece spogliarsi dell'altrettanto griffato cappotto loden. Che fine facessero quelle scarpe, quei cappotti non si è mai saputo. Forse seguivano una speciale rotta criminale, verso il riciclaggio, verso una nuova identità. I malavitosi d'altronde non si sognavano neanche lontanamente di indossarli, come diceva Sciascia: "ad ognuno il suo".
Forse a sud del mondo le prime, le dott. Scholl, dove il sudore acre ed il nero avorio del legno non scoraggia gli uomini e gli animali. A nord delle alpi forse i loden, dove il verde ricorda i prati finemente arati, la clorofilla e le alghe che dipingono a malachite l'acqua dei laghi di montagna, il colore dei dollari, che annoiati, riposano nei caveau delle banche.

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