Il mio viaggio sul regionale Friburgo-Berna comincia con il tonfo sordo di un monopattino scagliato alla cieca dentro il vagone. L’evento e lo stupore generale che ne scaturisce viene spiegato dall’arrivo di cinque giovani nordafricani che senza troppi complimenti si catapultano in prima classe e cominciano il gioco poco folkloristico tribale e più anarchico triviale di devastazione del vagone.
Come in ogni branco: c’è quello più grosso, e c’è quello più piccolo. Notoriamente il più piccolo è il più pericoloso, perché vuole mettersi in mostra e non essere più al centro delle prepotenze del gruppo, è lui che può scatenare la rissa, è lui che devi tenere costantemente sott’occhio.
Indossano tute con cappuccio, e scarpe sportive di marca, l’abito dunque in questo caso non esprime o giustifica una rabbia dovuta all’emarginazione, al disagio economico. Lo show è fatto di sputi per terra, urla, uno speaker portatile che spara decibel in distorsione, emulazioni di atti sessuali verso i sedili, e bottiglie di alcol vuote che (nel treno ormai in corsa) rullano impazzite tra una sponda e l’altra del vagone.
I presenti, come quando arriva un acquazzone estivo in spiaggia, raggruppano in fretta le proprie cose e cercano riparo qualche vagone più in là, io ho troppi bagagli e cicatrici sull’anima per spostarmi.
Provo a guardare fuori dal finestrino, a catapultarmi con i pensieri verso qualche posto lontano, ma quando sei nato e cresciuto tra i vicoli di Palermo, come in un poker violento, quando la partita si fa prepotente, non solo “vedi”, ma rilanci.
Mi ricordai di quando tredicenne passeggiando con amici incontrammo un gruppo di „scanazzati“ (piccoli delinquenti nostrani) del vicino Borgo Vecchio. In quel caso fu il capo branco a lanciami a distanza il suo avviso di minaccia. Si chiamava Madonia (tra fratelli e cugini un vero e proprio esercito), il cognome (nomen omen) era già tutto un programma nel quartiere. Non avevo scelta; ormai mi aveva puntato, bisognava lanciare un asso su quel tavolo, ed in fretta. Ben presto ci accerchiarono ed il Madonia con riso beffardo mi si piazzò davanti bloccandomi ogni via di fuga. Chiunque altro avrebbe accettato le sberle e gli sputi, oppure preso tempo nella speranza che qualche adulto coraggioso fosse venuto in nostro soccorso. Capii di non avere molto tempo, e la gente antistante sembrava interessata a guardare dall’altra parte. Per qualche motivo misterioso non mi rassegnai all’idea di lasciarmi martirizzare, dunque capitò ciò che poi in futuro mi sarebbe capitato altre volte: uccidere me stesso.
Non sentivo più il sangue in nessuna parte del mio corpo, ero improvvisamente inanimato, una diversa entità aveva preso il sopravvento. La mascella sembrava essersi pietrificata sulla faccia e lì, qualcosa cambiò le sorti del momento, guardai alle mie spalle, come in cerca di me stesso, mi girai e mollai un pugno dritto potente, fulmineo, nell’occhio del piccolo boss del quartiere. Lo stupore generale ci permise di farci largo, scappare e rifugiarci dentro un portone. Sapevamo che ci avrebbero cercato e che sarebbero arrivati i rinforzi… ma ormai era fatta, ed io in quel momento di “assenza” non avevo calcolato i rischi del dopo.
Nei giorni seguenti mi arrivò l’eco: Madonia mi stava cercando, e fu una fortuna nella sfortuna incontrarlo qualche giorno dopo, da solo. Come in un film di Sergio Leone, in una strada semi deserta di una Palermo sporca e arroventata dall’afa, c’ero io e c’era lui, con il suo occhio opera di un mare in tempesta alla William Turner; nero ormai tendente al bluastro. Mi ero preparato mentalmente a ricevere il conto, ma con mio profondo stupore mi passò accanto urtandomi violentemente la spalla come per dire: “oggi non voglio lottare”. Forse in quell’essere soli, senza un pubblico mai pagante che ne avrebbe potuto raccontare, aveva avvertito l’inutilità di farmi o di farci vicendevolmente del male.
Tanti anni dopo, seppi dai giornali e dalle cronache locali (e internazionali) che Madonia aveva fatto grande carriera nella malavita; tuttora mi chiedo come mai quel pugno in un occhio non mi sia costato col tempo, a titolo "risarcitorio", almeno una pallottola in una rotula.
Ecco, abbandonati i ricordi sono catapultato nuovamente sul treno in corsa. Il pezzo piccolo dello scacchiere mi ha puntato, mi indica minacciosamente con una bottiglia vuota, fa il cenno di romperla e di passarla per la gola, vuole guadagnare qualche punto nel gruppo, e per farlo deve aumentare la posta.
Non sento più il sangue, metto la mano dentro lo zaino e tra gli attrezzi che mi servono per sbloccare le voci della fisarmonica afferro il taglierino. Lo accarezzo con il pollice come a volerlo tenere buono e lontano dalla paura che ho più che altro di me stesso. Ormai i cinque non li vedo e non li sento più… sono cieco, muto e nuovamente fuori dal corpo.
Da qualche parte dev’esserci un Dio della casualità, e della temperanza: il caso, o forse l’energia malsana che ormai io emanavo perfino a me stesso, fa sì che i cinque si spostano dall’altra parte del vagone. Il più grosso deve aver intuito qualcosa.
Di tanto in tanto qualche sguardo ravvisava se io fossi ancora lì; c’ero, e la mano era ancora dentro lo zaino. Le loro urla: c’erano anche quelle, accompagnate dalle facce inorridite di chi passandomi accanto cercava ancora riparo da qualche altra parte. Le porte si aprono, scendono, ed io sento il caos spostarsi verso fuori ed il sangue tornare lentamente a bussare nel cuore, bene, sono tornato.
Tanti anni nel tentativo riuscito di restare sempre me stesso, ed improvvisamente, mi ritrovo quarant’anni dopo, nel cuore della limpida Svizzera, assente come tra i vicoli sporchi di Palermo.
Ormai è una moda raccontare della mafia, lo fanno soprattutto quelli che non l’hanno mai vista, annusata, presagita. Quelli che non hanno mai sentito il botto di uno sparo che sparpaglia la folla, e poi il vuoto, il silenzio, ed un lenzuolo bianco che copre un corpo su un marciapiede; quelli che hanno vissuto nei quartieri buoni, o a Cortona, sul lago Maggiore o sul lago di Zug, odierni narratori di un crimine che non possono neanche immaginare. Per me la mafia cominciava così, con il giovane Madonia oggi forse recluso tra quattro pareti di un carcere duro, o forse adagiato dentro un pilastro, morto ammazzato.
Mi chiedo perché questi ragazzi africani sbarcati e adottati tra queste montagne portino dentro tutto questo disagio, cosa devono avergli raccontato i genitori per essere così arrabbiati, incattiviti (forse perfino giustamente), cosi lontani da noi.
Cosa gli stiamo offrendo: un telefonino sempre collegato con un outlet, rapper che mostrano il dito medio su sfondi di musica di merda, raccontano di violenza, di donne in bikini, di armi semiautomatiche, e bolidi screziati che sfondano il guardrail e che per qualche strano artificio o distorsione mentale irrompono dentro un treno.
Forse la cultura, le istituzioni qualcosa dovranno pensare, inventarsi, per Dio, perché questi ragazzi (molti) non riescono proprio ad integrarsi.
Il futuro non regala e non offre niente di buono, e la mia anima si rasserena sapendo che per quel giorno, per quel tempo, io, il mio zaino semiaperto, il monopattino scagliato verso il mondo, e perfino il giovane Madonia, noi tutti non saremo mai esistiti.
Come in ogni branco: c’è quello più grosso, e c’è quello più piccolo. Notoriamente il più piccolo è il più pericoloso, perché vuole mettersi in mostra e non essere più al centro delle prepotenze del gruppo, è lui che può scatenare la rissa, è lui che devi tenere costantemente sott’occhio.
Indossano tute con cappuccio, e scarpe sportive di marca, l’abito dunque in questo caso non esprime o giustifica una rabbia dovuta all’emarginazione, al disagio economico. Lo show è fatto di sputi per terra, urla, uno speaker portatile che spara decibel in distorsione, emulazioni di atti sessuali verso i sedili, e bottiglie di alcol vuote che (nel treno ormai in corsa) rullano impazzite tra una sponda e l’altra del vagone.
I presenti, come quando arriva un acquazzone estivo in spiaggia, raggruppano in fretta le proprie cose e cercano riparo qualche vagone più in là, io ho troppi bagagli e cicatrici sull’anima per spostarmi.
Provo a guardare fuori dal finestrino, a catapultarmi con i pensieri verso qualche posto lontano, ma quando sei nato e cresciuto tra i vicoli di Palermo, come in un poker violento, quando la partita si fa prepotente, non solo “vedi”, ma rilanci.
Mi ricordai di quando tredicenne passeggiando con amici incontrammo un gruppo di „scanazzati“ (piccoli delinquenti nostrani) del vicino Borgo Vecchio. In quel caso fu il capo branco a lanciami a distanza il suo avviso di minaccia. Si chiamava Madonia (tra fratelli e cugini un vero e proprio esercito), il cognome (nomen omen) era già tutto un programma nel quartiere. Non avevo scelta; ormai mi aveva puntato, bisognava lanciare un asso su quel tavolo, ed in fretta. Ben presto ci accerchiarono ed il Madonia con riso beffardo mi si piazzò davanti bloccandomi ogni via di fuga. Chiunque altro avrebbe accettato le sberle e gli sputi, oppure preso tempo nella speranza che qualche adulto coraggioso fosse venuto in nostro soccorso. Capii di non avere molto tempo, e la gente antistante sembrava interessata a guardare dall’altra parte. Per qualche motivo misterioso non mi rassegnai all’idea di lasciarmi martirizzare, dunque capitò ciò che poi in futuro mi sarebbe capitato altre volte: uccidere me stesso.
Non sentivo più il sangue in nessuna parte del mio corpo, ero improvvisamente inanimato, una diversa entità aveva preso il sopravvento. La mascella sembrava essersi pietrificata sulla faccia e lì, qualcosa cambiò le sorti del momento, guardai alle mie spalle, come in cerca di me stesso, mi girai e mollai un pugno dritto potente, fulmineo, nell’occhio del piccolo boss del quartiere. Lo stupore generale ci permise di farci largo, scappare e rifugiarci dentro un portone. Sapevamo che ci avrebbero cercato e che sarebbero arrivati i rinforzi… ma ormai era fatta, ed io in quel momento di “assenza” non avevo calcolato i rischi del dopo.
Nei giorni seguenti mi arrivò l’eco: Madonia mi stava cercando, e fu una fortuna nella sfortuna incontrarlo qualche giorno dopo, da solo. Come in un film di Sergio Leone, in una strada semi deserta di una Palermo sporca e arroventata dall’afa, c’ero io e c’era lui, con il suo occhio opera di un mare in tempesta alla William Turner; nero ormai tendente al bluastro. Mi ero preparato mentalmente a ricevere il conto, ma con mio profondo stupore mi passò accanto urtandomi violentemente la spalla come per dire: “oggi non voglio lottare”. Forse in quell’essere soli, senza un pubblico mai pagante che ne avrebbe potuto raccontare, aveva avvertito l’inutilità di farmi o di farci vicendevolmente del male.
Tanti anni dopo, seppi dai giornali e dalle cronache locali (e internazionali) che Madonia aveva fatto grande carriera nella malavita; tuttora mi chiedo come mai quel pugno in un occhio non mi sia costato col tempo, a titolo "risarcitorio", almeno una pallottola in una rotula.
Ecco, abbandonati i ricordi sono catapultato nuovamente sul treno in corsa. Il pezzo piccolo dello scacchiere mi ha puntato, mi indica minacciosamente con una bottiglia vuota, fa il cenno di romperla e di passarla per la gola, vuole guadagnare qualche punto nel gruppo, e per farlo deve aumentare la posta.
Non sento più il sangue, metto la mano dentro lo zaino e tra gli attrezzi che mi servono per sbloccare le voci della fisarmonica afferro il taglierino. Lo accarezzo con il pollice come a volerlo tenere buono e lontano dalla paura che ho più che altro di me stesso. Ormai i cinque non li vedo e non li sento più… sono cieco, muto e nuovamente fuori dal corpo.
Da qualche parte dev’esserci un Dio della casualità, e della temperanza: il caso, o forse l’energia malsana che ormai io emanavo perfino a me stesso, fa sì che i cinque si spostano dall’altra parte del vagone. Il più grosso deve aver intuito qualcosa.
Di tanto in tanto qualche sguardo ravvisava se io fossi ancora lì; c’ero, e la mano era ancora dentro lo zaino. Le loro urla: c’erano anche quelle, accompagnate dalle facce inorridite di chi passandomi accanto cercava ancora riparo da qualche altra parte. Le porte si aprono, scendono, ed io sento il caos spostarsi verso fuori ed il sangue tornare lentamente a bussare nel cuore, bene, sono tornato.
Tanti anni nel tentativo riuscito di restare sempre me stesso, ed improvvisamente, mi ritrovo quarant’anni dopo, nel cuore della limpida Svizzera, assente come tra i vicoli sporchi di Palermo.
Ormai è una moda raccontare della mafia, lo fanno soprattutto quelli che non l’hanno mai vista, annusata, presagita. Quelli che non hanno mai sentito il botto di uno sparo che sparpaglia la folla, e poi il vuoto, il silenzio, ed un lenzuolo bianco che copre un corpo su un marciapiede; quelli che hanno vissuto nei quartieri buoni, o a Cortona, sul lago Maggiore o sul lago di Zug, odierni narratori di un crimine che non possono neanche immaginare. Per me la mafia cominciava così, con il giovane Madonia oggi forse recluso tra quattro pareti di un carcere duro, o forse adagiato dentro un pilastro, morto ammazzato.
Mi chiedo perché questi ragazzi africani sbarcati e adottati tra queste montagne portino dentro tutto questo disagio, cosa devono avergli raccontato i genitori per essere così arrabbiati, incattiviti (forse perfino giustamente), cosi lontani da noi.
Cosa gli stiamo offrendo: un telefonino sempre collegato con un outlet, rapper che mostrano il dito medio su sfondi di musica di merda, raccontano di violenza, di donne in bikini, di armi semiautomatiche, e bolidi screziati che sfondano il guardrail e che per qualche strano artificio o distorsione mentale irrompono dentro un treno.
Forse la cultura, le istituzioni qualcosa dovranno pensare, inventarsi, per Dio, perché questi ragazzi (molti) non riescono proprio ad integrarsi.
Il futuro non regala e non offre niente di buono, e la mia anima si rasserena sapendo che per quel giorno, per quel tempo, io, il mio zaino semiaperto, il monopattino scagliato verso il mondo, e perfino il giovane Madonia, noi tutti non saremo mai esistiti.