Mi ero ripromesso di non scrivere più del tango, come un alcolista momentaneamente smaccato dalla propria dipendenza promette ad un gruppo di sostegno che non aprirà mai più una bottiglia di whisky. Ma per me il tango è diventato anche un esperimento sociale, e come un entomologo pettegolo osserva due insetti uno sopra l’altro, immaginando una gioia che ad occhio nudo non si può vedere, io spesso mi blocco ai margini della sala e osservo la ronda che passa e ripassa.
La Milonga in trasferta è come una finale di calcio, e quando quelli di Berna vanno a ballare a Zurigo, questi all’accoglienza abbozzano un mezzo sorriso, e come in una transazione ingarbugliata, ti scrutano dalla testa ai piedi per cercare di capire dove sta la fregatura; probabilmente funziona anche al contrario, in ogni caso rimane una “compravendita” difficile.
Entrato in sala, la prima cosa che mi colpisce sono i grumi di polvere ovunque: sotto i tavoli, ai piedi delle sedie, perfino al centro del pavimento, cespugli rotolanti, comparse anonime di tante pellicole Western, a metà tra il deserto del Colorado ed il tubo catodico; polvere.
Gli ampi pantaloni da tango trasformano i miei passi in un monsone estivo che soffia imperterrito fino al lato opposto della sala; giunto al tavolo, si quieta il vento e la polvere che mi gira intorno si arrende tra le scarpe.
La musica inizia, ed il musicalizador come in un cerimoniale laico si sposta al centro della sala per cercare di capire se il suono è abbastanza incisivo e penetrante. Lo è, per Dio se lo è. Il più delle volte questi dj sconsacrati dalle discoteche ignorano qualunque nozione di acustica, con il risultato che la musica è sempre sbilanciata sui bassi, che pulsano talmente tanti decibel da arrestare in corsa un pacemaker cardiaco. I miei auricolari antirumore anche questa volta saranno una mano santa ficcata dentro le orecchie.
Accanto al dj, sul palco, in due vecchi sofà, si dispiega il corpo d’élite della Milonga. Donne giovani, sedute sbilenche dentro i loro vestiti sottovuoto, come purosangue nei box attendono in una noia camuffata da divertimento il loro turno. Destinato a pochi, s’intende.
Tiro un lungo respiro: provo a mantenere un atteggiamento non ostile, sono un discreto ballerino, e ormai ho imparato il passo più difficile: lasciar perdere.
Provo a far notare che potremmo buttare via quei quintali di apparenze e provare a divertirci, ma nonostante il mio sguardo sia a tiro, sembro non destare la loro curiosità; d’altronde non sono il tipo che ti si blocca davanti e spinge sul fatto compiuto. Rinuncio. Anzi: decido di giocare con il resto della sala.
Una ballerina intelligente sa che un buon ballerino (anche se è uno sporco Yankee della capitale) è una risorsa, ma noi “bernesi” sembriamo non esserlo.
Fortunatamente altre donne, alcune di queste perfino più dotate delle sopracitate, anche loro vittime consapevoli della selezione innaturale del tango, innescano una chiara mirada: eccomi.
La Milonga per me è cominciata, qualche sguardo già conosciuto, qualche abbraccio, ad una Tanda buona ne segue una mediocre: tutto nella normalità.
In fondo alla sala, una giovane donna seduta da sola fissa da tempo le sue scarpe color turchese di cobalto. I tratti sembrano dell’Est, ha un viso e dei capelli molto belli che si intrecciano come una ghirlanda fino alla schiena.
Se una donna sta seduta per tre quarti della Milonga, la mia anima comincia a darmi calci dal di dentro, e mi dice “alza il culo e vai”.
Mi avvicino cercando di non disturbare chi sta in pista, come un pescatore armato di canna ed esca di un solo colore, ma lei continua imperterrita a fissare il vuoto, ed io, non avendo abbastanza sfacciataggine da piazzarmi proprio di fronte a lei, lascio perdere, torno a ballare, tornerò dopo, chissà, forse.
Mi rimetto nella corrente, mi lascio spingere. Dentro c’è di tutto: chi ti saluta cinque volte in un’ora, (tecnica e abile pretesto per farsi invitare), chi non ti conosce più, chi ti sconosce da dieci milonghe e improvvisamente ti sorride, una che mi odia atavicamente senza alcun motivo, e che oggi mi sorprende con: “Ciao Antonello, come va?”.
Un’altra mi dice: “Vado a prendermi un Prosecco, ne vuoi uno?”
“Certo!”, rispondo io. Insomma, come in ogni vera Milonga c’è di tutto, ed io sto al gioco come una carta sta in mezzo al mazzo.
A metà dell’opera ecco materializzarsi un paio di maestri. Uno mi rievoca un giovane nobile decaduto: indossa giacca e vestiti anni Settanta, prova a marcare il territorio, ma la corte adagiata sul palco sembra essere poco attratta.
Poi arriva quello figo: ballerino e insegnante, jeans attillati, magliettina trasandata. Ma lui evidentemente pensa di poterselo permettere. L’Olimpo sul palco trapassato sul divano si anima fino a dimenarsi nervosamente, a contorcersi come anguille, sfoggiando le proprie armi più affilate: nel tango il sex appeal non può essere un valore aggiunto ed io, quando posso, lo faccio notare.
Comincia la Tanda, e coppie come queste non hanno il minimo rispetto della ronda; forti del loro “status”, possono trasgredire ogni regola basilare del codice tanguero: piazzati al centro, cominciano a dimenare colpi a destra e a manca; che si fotta la ronda, e che vada a farsi fottere chi si prende un calcio su una rotula. Ogni guerra conta vittime del fuoco amico.
Li guardo, cerco di trovare qualcosa di buono, di bello, che giustifichi tutta questa marmellata insana: ma niente, nessuna eleganza; movimenti volgari e violenti, e una goffaggine da primate che si muove sul suolo, e non tra gli alberi, mi convincono che il tappo è sì grosso; ma la bottiglia è vuota.
Mi dico che può bastare.
Tra mezz’ora un treno può riportarmi alla normalità o all’anormalità del vivere quotidiano.
La donna dell’Est? Scomparsa, andata, senza aver fatto un solo ballo. Chissà, forse una principiante, forse la più grande ballerina di tango del mondo. Non lo sapremo mai.
In treno incontro un amico tanguero. Domande di rito.
Chiedo: “Ti sei divertito?”
Risponde: “Mah, mi hanno un po‘ snobbato, soprattutto quelle sedute sul palco”.
Io: “Lo hanno fatto anche con me, e dire che non siamo proprio da buttare”.
Ci ridiamo sopra.
Lui: “Avrei voluto ballare con una che è stata tutto il pomeriggio seduta in un angolo, ho provato a guardarla ma lei niente”.
Io: “Anch‘io volevo invitarla! Aveva scarpe color turchese di cobalto, vero?”.
Lui: “Sì”.
La Milonga in trasferta è come una finale di calcio, e quando quelli di Berna vanno a ballare a Zurigo, questi all’accoglienza abbozzano un mezzo sorriso, e come in una transazione ingarbugliata, ti scrutano dalla testa ai piedi per cercare di capire dove sta la fregatura; probabilmente funziona anche al contrario, in ogni caso rimane una “compravendita” difficile.
Entrato in sala, la prima cosa che mi colpisce sono i grumi di polvere ovunque: sotto i tavoli, ai piedi delle sedie, perfino al centro del pavimento, cespugli rotolanti, comparse anonime di tante pellicole Western, a metà tra il deserto del Colorado ed il tubo catodico; polvere.
Gli ampi pantaloni da tango trasformano i miei passi in un monsone estivo che soffia imperterrito fino al lato opposto della sala; giunto al tavolo, si quieta il vento e la polvere che mi gira intorno si arrende tra le scarpe.
La musica inizia, ed il musicalizador come in un cerimoniale laico si sposta al centro della sala per cercare di capire se il suono è abbastanza incisivo e penetrante. Lo è, per Dio se lo è. Il più delle volte questi dj sconsacrati dalle discoteche ignorano qualunque nozione di acustica, con il risultato che la musica è sempre sbilanciata sui bassi, che pulsano talmente tanti decibel da arrestare in corsa un pacemaker cardiaco. I miei auricolari antirumore anche questa volta saranno una mano santa ficcata dentro le orecchie.
Accanto al dj, sul palco, in due vecchi sofà, si dispiega il corpo d’élite della Milonga. Donne giovani, sedute sbilenche dentro i loro vestiti sottovuoto, come purosangue nei box attendono in una noia camuffata da divertimento il loro turno. Destinato a pochi, s’intende.
Tiro un lungo respiro: provo a mantenere un atteggiamento non ostile, sono un discreto ballerino, e ormai ho imparato il passo più difficile: lasciar perdere.
Provo a far notare che potremmo buttare via quei quintali di apparenze e provare a divertirci, ma nonostante il mio sguardo sia a tiro, sembro non destare la loro curiosità; d’altronde non sono il tipo che ti si blocca davanti e spinge sul fatto compiuto. Rinuncio. Anzi: decido di giocare con il resto della sala.
Una ballerina intelligente sa che un buon ballerino (anche se è uno sporco Yankee della capitale) è una risorsa, ma noi “bernesi” sembriamo non esserlo.
Fortunatamente altre donne, alcune di queste perfino più dotate delle sopracitate, anche loro vittime consapevoli della selezione innaturale del tango, innescano una chiara mirada: eccomi.
La Milonga per me è cominciata, qualche sguardo già conosciuto, qualche abbraccio, ad una Tanda buona ne segue una mediocre: tutto nella normalità.
In fondo alla sala, una giovane donna seduta da sola fissa da tempo le sue scarpe color turchese di cobalto. I tratti sembrano dell’Est, ha un viso e dei capelli molto belli che si intrecciano come una ghirlanda fino alla schiena.
Se una donna sta seduta per tre quarti della Milonga, la mia anima comincia a darmi calci dal di dentro, e mi dice “alza il culo e vai”.
Mi avvicino cercando di non disturbare chi sta in pista, come un pescatore armato di canna ed esca di un solo colore, ma lei continua imperterrita a fissare il vuoto, ed io, non avendo abbastanza sfacciataggine da piazzarmi proprio di fronte a lei, lascio perdere, torno a ballare, tornerò dopo, chissà, forse.
Mi rimetto nella corrente, mi lascio spingere. Dentro c’è di tutto: chi ti saluta cinque volte in un’ora, (tecnica e abile pretesto per farsi invitare), chi non ti conosce più, chi ti sconosce da dieci milonghe e improvvisamente ti sorride, una che mi odia atavicamente senza alcun motivo, e che oggi mi sorprende con: “Ciao Antonello, come va?”.
Un’altra mi dice: “Vado a prendermi un Prosecco, ne vuoi uno?”
“Certo!”, rispondo io. Insomma, come in ogni vera Milonga c’è di tutto, ed io sto al gioco come una carta sta in mezzo al mazzo.
A metà dell’opera ecco materializzarsi un paio di maestri. Uno mi rievoca un giovane nobile decaduto: indossa giacca e vestiti anni Settanta, prova a marcare il territorio, ma la corte adagiata sul palco sembra essere poco attratta.
Poi arriva quello figo: ballerino e insegnante, jeans attillati, magliettina trasandata. Ma lui evidentemente pensa di poterselo permettere. L’Olimpo sul palco trapassato sul divano si anima fino a dimenarsi nervosamente, a contorcersi come anguille, sfoggiando le proprie armi più affilate: nel tango il sex appeal non può essere un valore aggiunto ed io, quando posso, lo faccio notare.
Comincia la Tanda, e coppie come queste non hanno il minimo rispetto della ronda; forti del loro “status”, possono trasgredire ogni regola basilare del codice tanguero: piazzati al centro, cominciano a dimenare colpi a destra e a manca; che si fotta la ronda, e che vada a farsi fottere chi si prende un calcio su una rotula. Ogni guerra conta vittime del fuoco amico.
Li guardo, cerco di trovare qualcosa di buono, di bello, che giustifichi tutta questa marmellata insana: ma niente, nessuna eleganza; movimenti volgari e violenti, e una goffaggine da primate che si muove sul suolo, e non tra gli alberi, mi convincono che il tappo è sì grosso; ma la bottiglia è vuota.
Mi dico che può bastare.
Tra mezz’ora un treno può riportarmi alla normalità o all’anormalità del vivere quotidiano.
La donna dell’Est? Scomparsa, andata, senza aver fatto un solo ballo. Chissà, forse una principiante, forse la più grande ballerina di tango del mondo. Non lo sapremo mai.
In treno incontro un amico tanguero. Domande di rito.
Chiedo: “Ti sei divertito?”
Risponde: “Mah, mi hanno un po‘ snobbato, soprattutto quelle sedute sul palco”.
Io: “Lo hanno fatto anche con me, e dire che non siamo proprio da buttare”.
Ci ridiamo sopra.
Lui: “Avrei voluto ballare con una che è stata tutto il pomeriggio seduta in un angolo, ho provato a guardarla ma lei niente”.
Io: “Anch‘io volevo invitarla! Aveva scarpe color turchese di cobalto, vero?”.
Lui: “Sì”.