Tutto ebbe inizio e fine quando il mio insegnante di pittura, dinnanzi a una diapositiva di Michelangelo, lanciò in aria il telecomando, e corse via dall’aula piangendo.
L’inizio: non dimenticherò mai quella mattina in cui decisi di iscrivermi all’Accademia di belle arti. Due enormi edifici separati da una strada principale che taglia il vecchio quartiere Papireto di Palermo. Qui, rigattieri, barbieri e bancarelle di cibo improvvisato sono un paradigma che tutt’oggi sopravvive alle intemperie della modernità, e alla ritenuta d’acconto.
I calchi monumentali all’ingresso sembrava volessero lasciar presagire che avrei trovato gli ingredienti giusti: destrezza, eccellenza, maestria, quanto basta per dimenticare quella schiera di ragionieri e geometri mancati, che la vita in cooperazione con qualche politico locale aveva adagiato come titolari di una cattedra di disegno al liceo artistico.
Finalmente l’inizio dei corsi.
Giunto nell'atrio chiesi al bidello (stagionato dalla noia e dall’aria ammuffita del ripostiglio delle scope e della carta igienica) dove si trovasse l’aula di pittura. Questi, lasciando fermo lo sguardo in direzione del pacchetto di Marlboro, come rispondendo alle “senza filtro”:
“Che ne so io ? Di solito stanno all’ultimo piano, quelli”.
Salii, mi pareva di essere finito dentro un cinema porno pomeridiano, ci scrutavamo abbassando lo sguardo, con l’aria di chi c’era finito per sbaglio, spinto dalla folla e da qualche atavica manchevolezza o frivolezza coniugale.
Dopo una mezz’ora di nulla generale, eccolo: il maestro è arrivato.
Un giovane, dall’aspetto inconcludente, a metà tra un Nanni Moretti democristiano, ed un Woody Allen palestinese, sguardo fintamente intellettuale e palesemente disturbato dalla nostra e dalla sua stessa presenza.
Si tolse la giacca stropicciata dal caldo e dall’arroganza accatastata sopra, cominciò un appello con la stessa austerità di uno che legge al collocamento una selezione di disperati che quel giorno avrebbero miracolosamente lavorato. Il mio, di nome, lo scandì forte: “Antonello Messina”; mi cercò tra i tanti, come per dire: ecco un altro scemo che pensa di poter fare l’artista solo perché ha un nome da pittore. In effetti in accademia di nomi, ma soprattutto di cognomi, ne giravano pochi, e non ci volle molto a capire che nonostante non si parlassero tra di loro, nonostante si schifassero vicendevolmente, quella schiera di insegnanti erano tutti miracolosamente imparentati: padri, figli, zii, tutti magicamente assunti e immolati sull’altare dell’arte e dello stipendio fisso.
Secondo giorno: convinto che avremmo cominciato a fare sul serio mi portai dietro la mia vecchia cassetta con dentro i colori ad olio, un paio di palette, pennelli, un piccolo strofinaccio, forse inconsciamente o più ingenuamente volevo far colpo, dare la parvenza di uno che faceva sul serio. Dentro quella scatola una sfilza di domande: per diluire al meglio quanta e quale trementina adoperare, certe alchimie sulla gomma arabica di cui avevo perlopiù letto in vecchi manuali. Quando l’insegnante si avvicinò alla mia postazione mi guardò come se avesse avvistato un disco volante sul soffitto: “Ma che ti sei portato dietro ?!“
Tutto l’occorrente per dipingere, risposi io. Mi voltò di scatto le spalle per parcheggiarsi verso il tizio che mi stava accanto. Questi era al quarto (e quindi ultimo) anno di pittura. Il primo giorno di scuola si presentò con una porta tra le braccia, tutto il suo lavoro artistico ed intellettuale consisteva nel praticare un paio di fori al giorno attraverso l’uso di un piccolo trivellino. In effetti di buchi quella porta ormai ne aveva a bizzeffe, e lui nel suo faticoso processo di trasmutazione da uomo a tarlo, dopo averne praticati un paio si riposava per il resto delle ore svolgendo con altrettanta perizia il ruolo più umanoide di fabbricarsi sigarette e rullarsi qualche canna. Mi parve sin da subito che il professore trovasse il suo compito artistico più affine al contesto rispetto al mio; uno che voleva dipingere e disegnare in modo accademico in un’accademia era, forse a mia insaputa, in quel tempo o in quell‘aula, una sorta di “pleonasmo linguistico”.
Tra le altre materie c’era la famigerata anatomia, e colui che avrebbe dovuto (nella migliore delle ipotesi) dispensarci un 18 sul libretto era un rinomato e temutissimo “spacca ossa”. Si vociferava ogni anno (da almeno dieci anni) che l’anno dopo sarebbe andato in pensione, ma lui sbavando e sudando sembrava non voler rinunciare per nulla al mondo a rovinare le potenziali giornate di mare degli iscritti al suo corso. La felicità certe volte si accontenta di poco; di un diciotto in anatomia, ed io ora lo sapevo.
Parte seconda: occupazione.
Quell’anno, nell’autunno del ‘92, dopo poche settimane dall’inizio dei corsi scattò l’occupazione, preceduta e oleata dalle interminabili riunioni guidate dal movimento studentesco e da qualche sindacalista intento a fare carriera.
Ognuno assolveva al suo ruolo, come? Lubrificando lo sciopero. Gli insegnanti ci incoraggiavano sottovoce ad occupare.
Gli studenti attempati (soprattutto quelli dell’ultimo anno): magliettina del Che Guevara, maglioncino volutamente un po’ lercio attaccato alla vita, borsetta di cuoio, alito guastato dal tabacco e dai troppi avverbi usati. Non vedevano l‘ora di accamparsi in segreteria e di scacazzare impuniti i bagni.
Ognuno nella sua divisa, nel suo ruolo; c’era anche l’immancabile paio di agenti della DIGOS: baffo folto e impermeabile (a Palermo). Detto tra noi, si sarebbero infiltrati più discretamente se fossero venuti come carabinieri a cavallo; in ogni caso, anche se riconoscibili più di un boy-scout al primo giorno, questi cercando di apparire discreti seguivano i comizi e le riunioni, come un ateo segue la processione del santo patrono per controllare che nessuno rubi le offerte, o lanci una bestemmia verso il governo.
In tutto questo caos, le ampie finestre, quei muri scorticati dal tempo e da storie raccontate, immaginate o dipinte, sembrava volessero parlarmi e spiegarmi che l’arte era comunque lì, nascosta in qualche anfratto, era l’aureola invisibile di un busto, era la polvere su un putto di stucco, era il chewing-gum attaccato sotto il banco, era la scopa del bidello che nel raccogliere la polvere accarezzava il tempo.
Finita l’occupazione tutto tornò come all’inizio, fu perfino cancellato il vulcano in eruzione che io avevo dipinto in segno di protesta, nella stanza del rettore, sfogo per le centinaia di chili di colore che qualcuno avrebbe dovuto distribuire a noi studenti, e che invece venivano occultati, nascosti, per chissà quali motivi in un magazzino adiacente. Una volta scovati li usammo, finalmente, in un coito di colori non interrotto, con rabbia, senza alcuna parsimonia.
Parte finale:
Mi ero preparato per riprendere da dove avevamo lasciato: la fuga, quell’impeto di amore verso l’arte, quell’esplosione insostenibile di emozione e ammirazione verso quella diapositiva spalmata sul muro. Il Tondo Doni del Michelangelo.
Quanta poesia nascosta doveva esserci dentro quell’uomo per indurlo alla diserzione, ad abbandonarsi senza remore al pianto. Continuavo a ripetermi che in quel gesto forse stava tutta la grandezza di quell’insegnante, il mio professore di pittura, di colore, di emozioni forti; dovevo aspettare, dovevo capire, dovevo crescere.
Salendo le scale incontrai un compagno di corso, mi vide particolarmente acceso, di un rosso carminio e di un vigoroso entusiasmo per la ripresa delle lezioni di pittura.
Gli dissi: “Sai, quell’ultima lezione mi ha toccato, vedere il professore scappare davanti alla grandezza di Michelangelo ... “
Lui: “Ma chi ? Ma hai veramente pensato questo ? Ma quello è scappato perché si era lasciato con la fidanzata! Vedrai che oggi non scappa, li ho visti nuovamente insieme baciarsi nel parcheggio”.
Io: “Dici sul serio?”.
Lui: “Certo, ogni volta che si lasciano lui va in crisi e scappa”.
“Che fai ?
non sali?
....L’ora comincia”.
Io: “No, penso di aver chiuso”.
Uscito fuori dal mastodontico portone un pallone mi rotolò fino ai piedi: “ Pallaaaaa”, mi gridarono dei ragazzi dal fondo della strada.
C’era una luce fortissima, abbagliante, una di quelle che solo Palermo sa regalare o infliggere. Dall’altra parte della strada le botteghe dei rigattieri scagliavano bagliori, come schegge di stelle impazzite, finti alamari d’oro, ex voto e armature dei pupi: Orlando, Rinaldo a spade sguainate, mi confondevano gli occhi, mi accecavano di riflessi.
Pensai:
“Eccola l’arte,
è la luce,
è fuori”.
L’inizio: non dimenticherò mai quella mattina in cui decisi di iscrivermi all’Accademia di belle arti. Due enormi edifici separati da una strada principale che taglia il vecchio quartiere Papireto di Palermo. Qui, rigattieri, barbieri e bancarelle di cibo improvvisato sono un paradigma che tutt’oggi sopravvive alle intemperie della modernità, e alla ritenuta d’acconto.
I calchi monumentali all’ingresso sembrava volessero lasciar presagire che avrei trovato gli ingredienti giusti: destrezza, eccellenza, maestria, quanto basta per dimenticare quella schiera di ragionieri e geometri mancati, che la vita in cooperazione con qualche politico locale aveva adagiato come titolari di una cattedra di disegno al liceo artistico.
Finalmente l’inizio dei corsi.
Giunto nell'atrio chiesi al bidello (stagionato dalla noia e dall’aria ammuffita del ripostiglio delle scope e della carta igienica) dove si trovasse l’aula di pittura. Questi, lasciando fermo lo sguardo in direzione del pacchetto di Marlboro, come rispondendo alle “senza filtro”:
“Che ne so io ? Di solito stanno all’ultimo piano, quelli”.
Salii, mi pareva di essere finito dentro un cinema porno pomeridiano, ci scrutavamo abbassando lo sguardo, con l’aria di chi c’era finito per sbaglio, spinto dalla folla e da qualche atavica manchevolezza o frivolezza coniugale.
Dopo una mezz’ora di nulla generale, eccolo: il maestro è arrivato.
Un giovane, dall’aspetto inconcludente, a metà tra un Nanni Moretti democristiano, ed un Woody Allen palestinese, sguardo fintamente intellettuale e palesemente disturbato dalla nostra e dalla sua stessa presenza.
Si tolse la giacca stropicciata dal caldo e dall’arroganza accatastata sopra, cominciò un appello con la stessa austerità di uno che legge al collocamento una selezione di disperati che quel giorno avrebbero miracolosamente lavorato. Il mio, di nome, lo scandì forte: “Antonello Messina”; mi cercò tra i tanti, come per dire: ecco un altro scemo che pensa di poter fare l’artista solo perché ha un nome da pittore. In effetti in accademia di nomi, ma soprattutto di cognomi, ne giravano pochi, e non ci volle molto a capire che nonostante non si parlassero tra di loro, nonostante si schifassero vicendevolmente, quella schiera di insegnanti erano tutti miracolosamente imparentati: padri, figli, zii, tutti magicamente assunti e immolati sull’altare dell’arte e dello stipendio fisso.
Secondo giorno: convinto che avremmo cominciato a fare sul serio mi portai dietro la mia vecchia cassetta con dentro i colori ad olio, un paio di palette, pennelli, un piccolo strofinaccio, forse inconsciamente o più ingenuamente volevo far colpo, dare la parvenza di uno che faceva sul serio. Dentro quella scatola una sfilza di domande: per diluire al meglio quanta e quale trementina adoperare, certe alchimie sulla gomma arabica di cui avevo perlopiù letto in vecchi manuali. Quando l’insegnante si avvicinò alla mia postazione mi guardò come se avesse avvistato un disco volante sul soffitto: “Ma che ti sei portato dietro ?!“
Tutto l’occorrente per dipingere, risposi io. Mi voltò di scatto le spalle per parcheggiarsi verso il tizio che mi stava accanto. Questi era al quarto (e quindi ultimo) anno di pittura. Il primo giorno di scuola si presentò con una porta tra le braccia, tutto il suo lavoro artistico ed intellettuale consisteva nel praticare un paio di fori al giorno attraverso l’uso di un piccolo trivellino. In effetti di buchi quella porta ormai ne aveva a bizzeffe, e lui nel suo faticoso processo di trasmutazione da uomo a tarlo, dopo averne praticati un paio si riposava per il resto delle ore svolgendo con altrettanta perizia il ruolo più umanoide di fabbricarsi sigarette e rullarsi qualche canna. Mi parve sin da subito che il professore trovasse il suo compito artistico più affine al contesto rispetto al mio; uno che voleva dipingere e disegnare in modo accademico in un’accademia era, forse a mia insaputa, in quel tempo o in quell‘aula, una sorta di “pleonasmo linguistico”.
Tra le altre materie c’era la famigerata anatomia, e colui che avrebbe dovuto (nella migliore delle ipotesi) dispensarci un 18 sul libretto era un rinomato e temutissimo “spacca ossa”. Si vociferava ogni anno (da almeno dieci anni) che l’anno dopo sarebbe andato in pensione, ma lui sbavando e sudando sembrava non voler rinunciare per nulla al mondo a rovinare le potenziali giornate di mare degli iscritti al suo corso. La felicità certe volte si accontenta di poco; di un diciotto in anatomia, ed io ora lo sapevo.
Parte seconda: occupazione.
Quell’anno, nell’autunno del ‘92, dopo poche settimane dall’inizio dei corsi scattò l’occupazione, preceduta e oleata dalle interminabili riunioni guidate dal movimento studentesco e da qualche sindacalista intento a fare carriera.
Ognuno assolveva al suo ruolo, come? Lubrificando lo sciopero. Gli insegnanti ci incoraggiavano sottovoce ad occupare.
Gli studenti attempati (soprattutto quelli dell’ultimo anno): magliettina del Che Guevara, maglioncino volutamente un po’ lercio attaccato alla vita, borsetta di cuoio, alito guastato dal tabacco e dai troppi avverbi usati. Non vedevano l‘ora di accamparsi in segreteria e di scacazzare impuniti i bagni.
Ognuno nella sua divisa, nel suo ruolo; c’era anche l’immancabile paio di agenti della DIGOS: baffo folto e impermeabile (a Palermo). Detto tra noi, si sarebbero infiltrati più discretamente se fossero venuti come carabinieri a cavallo; in ogni caso, anche se riconoscibili più di un boy-scout al primo giorno, questi cercando di apparire discreti seguivano i comizi e le riunioni, come un ateo segue la processione del santo patrono per controllare che nessuno rubi le offerte, o lanci una bestemmia verso il governo.
In tutto questo caos, le ampie finestre, quei muri scorticati dal tempo e da storie raccontate, immaginate o dipinte, sembrava volessero parlarmi e spiegarmi che l’arte era comunque lì, nascosta in qualche anfratto, era l’aureola invisibile di un busto, era la polvere su un putto di stucco, era il chewing-gum attaccato sotto il banco, era la scopa del bidello che nel raccogliere la polvere accarezzava il tempo.
Finita l’occupazione tutto tornò come all’inizio, fu perfino cancellato il vulcano in eruzione che io avevo dipinto in segno di protesta, nella stanza del rettore, sfogo per le centinaia di chili di colore che qualcuno avrebbe dovuto distribuire a noi studenti, e che invece venivano occultati, nascosti, per chissà quali motivi in un magazzino adiacente. Una volta scovati li usammo, finalmente, in un coito di colori non interrotto, con rabbia, senza alcuna parsimonia.
Parte finale:
Mi ero preparato per riprendere da dove avevamo lasciato: la fuga, quell’impeto di amore verso l’arte, quell’esplosione insostenibile di emozione e ammirazione verso quella diapositiva spalmata sul muro. Il Tondo Doni del Michelangelo.
Quanta poesia nascosta doveva esserci dentro quell’uomo per indurlo alla diserzione, ad abbandonarsi senza remore al pianto. Continuavo a ripetermi che in quel gesto forse stava tutta la grandezza di quell’insegnante, il mio professore di pittura, di colore, di emozioni forti; dovevo aspettare, dovevo capire, dovevo crescere.
Salendo le scale incontrai un compagno di corso, mi vide particolarmente acceso, di un rosso carminio e di un vigoroso entusiasmo per la ripresa delle lezioni di pittura.
Gli dissi: “Sai, quell’ultima lezione mi ha toccato, vedere il professore scappare davanti alla grandezza di Michelangelo ... “
Lui: “Ma chi ? Ma hai veramente pensato questo ? Ma quello è scappato perché si era lasciato con la fidanzata! Vedrai che oggi non scappa, li ho visti nuovamente insieme baciarsi nel parcheggio”.
Io: “Dici sul serio?”.
Lui: “Certo, ogni volta che si lasciano lui va in crisi e scappa”.
“Che fai ?
non sali?
....L’ora comincia”.
Io: “No, penso di aver chiuso”.
Uscito fuori dal mastodontico portone un pallone mi rotolò fino ai piedi: “ Pallaaaaa”, mi gridarono dei ragazzi dal fondo della strada.
C’era una luce fortissima, abbagliante, una di quelle che solo Palermo sa regalare o infliggere. Dall’altra parte della strada le botteghe dei rigattieri scagliavano bagliori, come schegge di stelle impazzite, finti alamari d’oro, ex voto e armature dei pupi: Orlando, Rinaldo a spade sguainate, mi confondevano gli occhi, mi accecavano di riflessi.
Pensai:
“Eccola l’arte,
è la luce,
è fuori”.