Oggi, sul mio vagone un uomo dalla folta barba bianca accarezza l‘aria cercando nel vuoto un dito mancante della mano.
Lo osservo, guardandomi bene dal non farmi notare, penso che nella vita avrei voluto rinvenire in me un qualche dono invisibile, un inaspettato potere, conquistato o immeritato poco avrebbe importato.
Su quell‘anonimo treno adesso, stavo mentalmente aprendo un giallo di Napoli, e dopo averlo mescolato ad un rosa quinacridone e ad un pizzico di bianco di titanio ecco: il prodigio, pennellata dopo pennellata avevo ritornato a quell‘uomo il suo dito perduto.
Luce e meraviglia: dopo aver così tanto desiderato, immaginato, visto e perfino annusato l’odore della trementina, come avrei potuto adesso rivelare a me stesso e a quel vecchio che io di alchimie non ne ero proprio capace?
La fantasia aveva cinicamente mutilato anche me, e mi aveva sprezzantemente restituito alle sole cose che possono accadere: a quella stagione che arriva all‘improvviso e che ti pare di sconoscere. Quel tempo in cui cominci a scansare i funerali, rabbonito e intorpidito dagli anni, da quella nuova e sciagurata empatia che si incunea tra le costole, e che crea una patina opaca su ogni nuova ruga o capello bianco; già, prima o poi ci tocca andare, morire, perdere una parte di noi.
Stringo la mano, trovo tutte le mie dita, le mani sfregandosi provano a farsi coraggio e così, come ad uno storico è richiesto il solo conoscere la storia (e non deve certo affaticarsi ad interpretarla o reinventarla, graziarla), io potevo fare il mestiere della pittura come un qualunque piccolo manovale, e quel liberarsi dall’impellenza dell’inventare e di ricorrere ad un improbabile miracolo mi avrebbe dispensato, e reso finalmente un piccolo operaio dell’arte.
Questo nuovo pensiero avrebbe dovuto bastarmi, svegliarmi. Eccomi: possedevo ancora il respiro, tutte le dita, una fantasia affilata che si diverte a cucire dita ritrovate ad anni perduti.