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Profumo di calendula

Mercoledi, 12 / 06 / 2024  


Dopo tanti anni di autogrill, backstage, “Gasthof” in luoghi angustiati, non avrei mai potuto immaginare di aprire la porta di un bagno pubblico e di rimanere attonito: qualcuno, in un attimo di delirio o di insano furore, si era strappato i capelli.
Stavano lì, un po’ dappertutto: sul pavimento, sopra la tavoletta, dentro la tazza, come balle di fieno lontane chilometri dalla campagna, urlavano la loro disperazione.
Ebbene sì, quel pomeriggio, dentro un comune cesso della Volkshaus di Zurigo, tirare la catena dello sciacquone avrebbe richiesto la forza di tutta una vita. Avevo la sensazione che, nonostante si muoia ripetutamente, purtroppo si nasce solo due volte: una quando esci dalla pancia di qualcuno, l’altra quando capisci per tempo chi diavolo sei veramente. Senza la seconda esisti solo come contraccolpo universale, come sputo biologico, sei una barca ancorata nel deserto, figlio illegittimo di un vuoto incolmabile.
Torno in sala. Sul palchetto accanto al deejay, su due divani come dentro il biotopo di una comunità freak, vive e prolifera l’area “vip” della serata.
Sirene arenate sugli scogli di una milonga in tempesta, giovani e affusolate donne (perlopiù asiatiche o dell’Est) attendono un maestro o presunto tale per accendersi e calarsi in quel mare pieno di pesci piccoli. Una malcelata noia, mescolata ad un divertimento posticcio figlio della superbia, le costringe ad isolarsi su un telefonino e mandare selfie in qualunque direzione del globo massmediale. Shakespeare avrebbe scritto: “essere e non esserci”.
Sulle note d’inizio di un valzer un paio di occhietti sorridenti e impauriti si fanno largo tra i tanti.
I suoi settant’anni sono tutti raccolti in quei capelli che, come un canestro di frutta dipinto da un Caravaggio innamorato, si offrono ancora alla vita. La pelle delle spalle al mio abbraccio scivola come una coperta e svela al tocco della mia mano il disegno delle vertebre. Arrivo alla scapola, lì mi fermo e cerco di connettermi al respiro e a quel nuovo habitat provvisorio. L’abito di pizzo nero, forse ricamato dalle stesse ossute dita, profuma di calendula. Mi pare di abbracciare la primavera.
Bene, c’è vita dentro, e in quel suo stringermi sento presente l’assenza di un compagno, forse scomparso da troppo tempo, oppure di un figlio assorto dagli impegni e dal troppo lavoro. In ogni caso mi offro ad ogni carenza con quell’altruismo che un po’ il tango, un po’ la vita, mi hanno saputo insegnare.
Certe volte devo sforzarmi di non guardare, perché come una spugna finisco per impregnarmi dei pesi altrui. Quel pomeriggio, nonostante la lotta ingaggiata con me stesso, finisco per cercare tra la folla l’aura disperata di quell’uomo forse ormai scappato, “strappato” (come la sua chioma) da un insostenibile dolore.
La serata scorre e per fortuna quell’abbraccio intriso di calendula sembra non volermi abbandonare, sembra dirmi: tranquillo uomo, figlio, giovane vecchio ragazzo, per oggi ti proteggo io.

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