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L'ultimo giorno del mondo

Giovedi, 27 / 12 / 2012  


Qualcosa mi persuadeva che una certa mediocrità sta nell'atto del ripetersi, e nell'incapacità di rinnovarsi. Mi venivano in mente certi cantautori, che come un'enorme ruota circense montata in periferia e senza asfalto, pur roteando sempre gli stessi giri armonici si vantano di aver scritto centinaia di canzoni, tutte sempre nuove. Ripensavo al mio vecchio professore di disegno geometrico, quando rivolgendosi alla classe proferiva: "Siete bestie! Che non vi passi per la mente di fare gli architetti! Di abomini fuori ne ho visti già troppi". Tornando alla cattedra con gli occhi al pavimento, quel giorno come altre volte disse sottovoce:
"Messina, vieni qui, che parliamo di Miles Davis".
Era sposato da quarant'anni con la stessa donna, ma non rivelava nulla di lei, solo un’aura, una brezza che nessuno aveva mai sentito, proprio come in quei telefilm alla "Colombo", dove in una fantasmagoria generale la moglie è un irraggiato spirito che tutto sa, che tutto può, con l'unico scoglio di non riuscire a materializzarsi nella pellicola. Lo immaginavo solo, chiuso in cantina con i suoi vinili lambiti solamente da bianchi guanti, e quell'alta fedeltà di frequenze, amplificatori a valvole che atterrano su pesanti balaustre di marmo, cavi preziosi come collane in oro. Nessuna oscillazione doveva aggredire la punta del piatto, i muri dell’edificio, la sordina di Miles. Lo immaginavo con gli occhi spalancati al buio e quell'enorme naso ad aquila, potente abbastanza da sollevare la testa, librarsi e volteggiare nel soffitto. Lo vedevo, in quel ritiro, a struggersi sulle note di "King of Blue" o su "Ascenseur pour l'échafaud". Una catasta di solitudine, di reiterati gesti, da vecchio insegnate di liceo statale, schivo, bonario e irascibile.
Presto imparai a conoscere anche le sue uniche tre giacche a scacchi. Vecchie di almeno vent'anni, come un’uniforme di perizia e mestiere sfoggiavano la fierezza e il piglio di un capo di alta sartoria che ha sbagliato la fermata nel tempo. Quando s'incazzava per un'ombra riuscita male tornava improvvisamente bambino, straparlava nel dialetto del suo paese, incollava le spalle al muro, come a proteggersi da curvilinei impazziti e punti di fuga sbagliati: retaggio forse della guerra e delle bombe degli alleati. Passato il pericolo andava alla finestra, portava le mani dietro la schiena e si afferrava un polso. Granitico come un monumento di pietra arenaria, squadrava fuori, ed io dal mio posto, attraverso il riflesso del vetro, potevo osservarlo senza usberghi, senza alcun filtro. Mi chiedevo spesso cosa stesse pensando: Le Corbusier, Frank Lloyd Wright, Miles Davis, il preside, la moglie. Fu lui a salvarmi con un trentasei politico, durante la maturità dell'86, poiché quel non classificato in matematica perdurato in tutti gli anni del liceo era un affronto a cui la commissione non voleva sottostare.
Aspettando la finta fine del mondo quel 21 dicembre, pensavo ai piccoli conflitti, a quelli grandi, ai medi, alle borse mondiali, alla politica, la finanza, alle lobby del tabacco, delle armi, della fede, a tutti quei santi e santità inutili, all'amore ad ogni costo, a quelli che scopano in auto di nascosto, all'oro nero, alla balordaggine di certi cantautori. Pensavo a tutto il mondo, anelando un po’ l'idea di cataclisma democratico. Pensavo all'Africa: sollevandosi a nord, avrebbe schiacciato come una noce l'Europa. E l'India: la vedevo sbriciolarsi come polvere d'oro per ricoprire e bonificare la steppa Russa. L'America latina, come un'omelette alla francese, rivoltarsi, fino a ricoprire l'intero Canada.
In quell'enorme pandemonio, forse da qualche parte le ossa del mio professore di disegno tecnico stavano ancora perfettamente in ordine. La fine del mondo mortificata da una naturale disciplina, dalla passione, dall'inesauribilmente piccolo, dal vero, dall'essenza. Un'unica verità, di eccellenza cosmica, di perfezione divina, di chi per rispetto alla bellezza muore indossando prima i guanti.

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