In amore ero stato un giocatore spericolato, con l'unica destrezza di saper congedare il tavolo un secondo prima di perdere ragione e rispetto. Tranne in una circostanza, ero stato dunque sempre io a gettare le carte, anche quando sembravano promettere un minimo di gioco corretto. Questo non faceva di me un eroe, e non mi conferiva alcun onore, ma in ogni circostanza, anche la più maledetta, avevo imparato empiricamente qualcosa.
Avevo rimesso il cuore in cassaforte, ora l'unico passatempo era scrutare gli affetti altrui. Come uno stetoscopio vivente auscultavo l'aria, cercando di captare un qualunque segnale.
A Gerusalemme, tornato in hotel, l'uomo seduto al banchetto davanti all'ingresso mi borbotta qualcosa in ebraico. Provo a fargli capire che non capisco. In un inglese "sdentato" mi chiede: "you have gum?". Metto le mani dentro la borsa, frugo, cercando tra cavi e partiture una gomma da masticare. Vedo un luccichio, un bagliore improvviso. Da dietro la giacca l'uomo sfila una pistola e mi ripete con tono impaziente: "you have gun?".
Quando incontri una pistola finisce che capisci tutto, in qualunque lingua.
Lo tranquillizzai, mostrando l'interno della borsa, avevo perfino trovato i chewing-gum. Sembrò non bastare. In effetti il mio marsupio, nascosto sotto il maglione sul fianco sinistro, sembrava in tutto e per tutto somigliare al suo fodero. Mostrai anche quello. Non seguì nessuna reazione: voltò le spalle, la pistola sparì, tornò a sedersi e a frugare nel telefonino. Riposizionai il marsupio, trattandolo come un’arma finora a me sconosciuta, mi recai verso l'ascensore, chiusi le porte sulla vicenda. La mattina dopo, attraversando la reception, mi ricordai della notte prima e mi preparai ad incrociare nuovamente quello sguardo ruvido. Il banchetto era lo stesso, simile in tutto e per tutto a quelli dei comizi elettorali visti nei telegiornali. Ma a "filtrare" gli avventori, non c'era l'uomo con la pistola, bensì una giovane e minuta ragazza. Gli occhiali spessi le rimpicciolivano di molto gli occhi. La camicetta maldestramente stirata mostrava le piaghe e le pieghe della degenza nel cassetto. I pantaloni blu oltremare cadevano appena sopra un paio di mocassini color terra di Siena bruciata, e male si adattavano a tutto il resto. La giovane mostrava una certa sofferenza, come se, scollegata dal posto di lavoro, stesse scrivendo un messaggio al sole che fuori sembrava aver chiamato per una passeggiata. Non ci fu alcun controllo, nessuno sguardo, la sua testa cascava fin dentro il telefonino, e lì giaceva pesante. Uscito fuori, andai a sedermi nel piccolo bar di fronte. Lì il caffè era migliore, quello nel termos gigante del buffet dell'hotel mi ispirava un detergente per le scarpe. Mi sedetti al primo tavolino libero, ordinai un caffè, mi chiesero il nome, risposi infastidito: "Cos'è per Dio? Ancora un controllo? Voglio solo un caffè!".
Con un pizzico di sarcasmo mi risposero: "Bene, se vuole il caffè deve dare il suo nome perché la chiameremo al microfono per venirselo a prendere! Qui funziona così, prendere o lasciare".
Accettai quella sgradevolezza pensando che fosse il prezzo da pagare per un caffè migliore. Stare lì seduto aspettando di essere chiamato mi ricordava l'ufficio di collocamento, ma stavolta pensavo avrei almeno ricevuto qualcosa in cambio. Tre minuti dopo sentii dagli altoparlanti: "Anatello please!".
Tutto sommato mi era andata meglio che in Germania. Lì – non ho mai capito il perché – il mio nome nei flyer dei concerti, negli articoli dei giornali, nella presentazione prima e dopo il concerto trasmigra al femminile, diventando "Antonella".
Sorseggiavo il caffè osservando il viavai della gente fuori. Ad un tratto, ecco la ragazza del banchetto guardare a destra e a sinistra della strada, attraversarla e piombare nel caffè degli altoparlanti. Uno sguardo fugace dentro al locale, poi, riconosciuto un viso familiare, si mosse nella mia direzione. Si bloccò, un tavolo davanti al mio, e senza convenevoli cominciò animatamente a parlare con un giovane ragazzo che maneggiava il telefono. Per ovvi motivi non capivo nulla, ma più lei alzava la voce più lui sembrava scrutare fuori dai vetri e dentro lo smartphone, proprio come se quella presenza e quella voce fossero un rumore urbano a cui ormai per assuefazione rimaniamo inermi. Il monologo della ragazza si animava vorticosamente, a tal punto da attirare l'attenzione dei tavoli lontani. La mia tazza era ormai vuota. Mi pareva di stare a teatro, ad una di quelle rappresentazioni scolastiche drammaticamente dilettantistiche. Pensai di alzarmi e di risparmiarmi almeno il finale, quando sul fianco – il lato che non avevo visto uscendo – vidi chiaramente la canna di una pistola: lì, proprio tra la camicetta e i pantaloni blu oltremare. Mi chiedevo come potesse essere finita un'arma al fianco di quella che a me pareva una ragazzina. Lei imprecava con l'anima sotto i piedi e gli occhi fuori dalle orbite. Adesso sembravano non essere poi così piccoli.
Di scatto portò entrambe le mani al fianco, in direzione dell'arma. Pensai a quanta poca fortuna ci vuole a trovarsi nella traiettoria di un proiettile sparato per un amore che nemmeno ti appartiene. Ma forse era il destino che voleva chiudere i conti con me, per gli amori e le storie che avevo travolto e stravolto. Vidi una roulette, stava roteando vorticosamente accanto a me, era una visione, come un chiosco di bevande fresche alla fine di un deserto. Fu un attimo, partì il colpo. Al posto di un proiettile la ragazza spara un anello sfilato senza difficoltà dalla mano, la stessa mano che si era appoggiata sul cane della pistola. L'anello come un proiettile impazzito rimbalza sul mio tavolo, per poi carambolare dietro, e sparire nella fitta moquette. Fatto dietrofront come un plotone d'esecuzione che ha eseguito la sentenza, la ragazza volta le spalle alla scena per ripetere il percorso in direzione opposta, verso il banchetto dell'hotel. Il ragazzo continuava a fissare fuori: nulla di quel teatro sembrava lo avesse distolto o scalfito. Mi alzai, come uno appena graziato da un meteorite e dalla mala sorte. Tornai al banco: "Un altro caffè, per favore".
A Gerusalemme, tornato in hotel, l'uomo seduto al banchetto davanti all'ingresso mi borbotta qualcosa in ebraico. Provo a fargli capire che non capisco. In un inglese "sdentato" mi chiede: "you have gum?". Metto le mani dentro la borsa, frugo, cercando tra cavi e partiture una gomma da masticare. Vedo un luccichio, un bagliore improvviso. Da dietro la giacca l'uomo sfila una pistola e mi ripete con tono impaziente: "you have gun?".
Quando incontri una pistola finisce che capisci tutto, in qualunque lingua.
Lo tranquillizzai, mostrando l'interno della borsa, avevo perfino trovato i chewing-gum. Sembrò non bastare. In effetti il mio marsupio, nascosto sotto il maglione sul fianco sinistro, sembrava in tutto e per tutto somigliare al suo fodero. Mostrai anche quello. Non seguì nessuna reazione: voltò le spalle, la pistola sparì, tornò a sedersi e a frugare nel telefonino. Riposizionai il marsupio, trattandolo come un’arma finora a me sconosciuta, mi recai verso l'ascensore, chiusi le porte sulla vicenda. La mattina dopo, attraversando la reception, mi ricordai della notte prima e mi preparai ad incrociare nuovamente quello sguardo ruvido. Il banchetto era lo stesso, simile in tutto e per tutto a quelli dei comizi elettorali visti nei telegiornali. Ma a "filtrare" gli avventori, non c'era l'uomo con la pistola, bensì una giovane e minuta ragazza. Gli occhiali spessi le rimpicciolivano di molto gli occhi. La camicetta maldestramente stirata mostrava le piaghe e le pieghe della degenza nel cassetto. I pantaloni blu oltremare cadevano appena sopra un paio di mocassini color terra di Siena bruciata, e male si adattavano a tutto il resto. La giovane mostrava una certa sofferenza, come se, scollegata dal posto di lavoro, stesse scrivendo un messaggio al sole che fuori sembrava aver chiamato per una passeggiata. Non ci fu alcun controllo, nessuno sguardo, la sua testa cascava fin dentro il telefonino, e lì giaceva pesante. Uscito fuori, andai a sedermi nel piccolo bar di fronte. Lì il caffè era migliore, quello nel termos gigante del buffet dell'hotel mi ispirava un detergente per le scarpe. Mi sedetti al primo tavolino libero, ordinai un caffè, mi chiesero il nome, risposi infastidito: "Cos'è per Dio? Ancora un controllo? Voglio solo un caffè!".
Con un pizzico di sarcasmo mi risposero: "Bene, se vuole il caffè deve dare il suo nome perché la chiameremo al microfono per venirselo a prendere! Qui funziona così, prendere o lasciare".
Accettai quella sgradevolezza pensando che fosse il prezzo da pagare per un caffè migliore. Stare lì seduto aspettando di essere chiamato mi ricordava l'ufficio di collocamento, ma stavolta pensavo avrei almeno ricevuto qualcosa in cambio. Tre minuti dopo sentii dagli altoparlanti: "Anatello please!".
Tutto sommato mi era andata meglio che in Germania. Lì – non ho mai capito il perché – il mio nome nei flyer dei concerti, negli articoli dei giornali, nella presentazione prima e dopo il concerto trasmigra al femminile, diventando "Antonella".
Sorseggiavo il caffè osservando il viavai della gente fuori. Ad un tratto, ecco la ragazza del banchetto guardare a destra e a sinistra della strada, attraversarla e piombare nel caffè degli altoparlanti. Uno sguardo fugace dentro al locale, poi, riconosciuto un viso familiare, si mosse nella mia direzione. Si bloccò, un tavolo davanti al mio, e senza convenevoli cominciò animatamente a parlare con un giovane ragazzo che maneggiava il telefono. Per ovvi motivi non capivo nulla, ma più lei alzava la voce più lui sembrava scrutare fuori dai vetri e dentro lo smartphone, proprio come se quella presenza e quella voce fossero un rumore urbano a cui ormai per assuefazione rimaniamo inermi. Il monologo della ragazza si animava vorticosamente, a tal punto da attirare l'attenzione dei tavoli lontani. La mia tazza era ormai vuota. Mi pareva di stare a teatro, ad una di quelle rappresentazioni scolastiche drammaticamente dilettantistiche. Pensai di alzarmi e di risparmiarmi almeno il finale, quando sul fianco – il lato che non avevo visto uscendo – vidi chiaramente la canna di una pistola: lì, proprio tra la camicetta e i pantaloni blu oltremare. Mi chiedevo come potesse essere finita un'arma al fianco di quella che a me pareva una ragazzina. Lei imprecava con l'anima sotto i piedi e gli occhi fuori dalle orbite. Adesso sembravano non essere poi così piccoli.
Di scatto portò entrambe le mani al fianco, in direzione dell'arma. Pensai a quanta poca fortuna ci vuole a trovarsi nella traiettoria di un proiettile sparato per un amore che nemmeno ti appartiene. Ma forse era il destino che voleva chiudere i conti con me, per gli amori e le storie che avevo travolto e stravolto. Vidi una roulette, stava roteando vorticosamente accanto a me, era una visione, come un chiosco di bevande fresche alla fine di un deserto. Fu un attimo, partì il colpo. Al posto di un proiettile la ragazza spara un anello sfilato senza difficoltà dalla mano, la stessa mano che si era appoggiata sul cane della pistola. L'anello come un proiettile impazzito rimbalza sul mio tavolo, per poi carambolare dietro, e sparire nella fitta moquette. Fatto dietrofront come un plotone d'esecuzione che ha eseguito la sentenza, la ragazza volta le spalle alla scena per ripetere il percorso in direzione opposta, verso il banchetto dell'hotel. Il ragazzo continuava a fissare fuori: nulla di quel teatro sembrava lo avesse distolto o scalfito. Mi alzai, come uno appena graziato da un meteorite e dalla mala sorte. Tornai al banco: "Un altro caffè, per favore".