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il tacchino violinista

Sabato, 01 / 12 / 2012  


Avendo dormito tre ore, e male, giunto in aeroporto non avevo granché voglia di parlare. Ero una statua, un altorilievo di rimacinato duro. Quando sto zitto chi mi sta vicino comincia ad agitarsi come se la mia bocca occultasse un dossier militare, oppure una di quelle confessioni che precedono l'estrema unzione. Niente di tutto questo, avevo solo dormito poco, pensato troppo, e nella direzione sbagliata. Gli aeroporti di notte sono in qualunque stagione freddi, e ricordano da vicino la sala d'attesa dei reparti di oncologia di certi ospedali. Mi trovavo in coda per l'imbarco. Dietro di me uno sparuto gruppo di uomini sfondava il muro del silenzio con un improvvisato "carnevale di Rio", ma alle cinque del mattino all'aeroporto di Basilea nessuno sembrava gradire, io per primo. Probabilmente colleghi d'ufficio di una compagnia d'assicurazioni, avviliti da fidanzate sempre ben pettinate, o da bonus non conseguiti, avevano il fare di chi avrebbe raggiunto una di quelle località dove in hotel trovi "all inclusive": condom, sacchetti per il vomito, e un balcone per defenestrarsi verso la piscina sotto. Uno di questi aveva una voce che sembrava un violino suonato da un archetto arrugginito, e strillava a trenta centimetri dal mio orecchio. Ripensandoci il suo timbro di voce ricordava vagamente anche quello di un tacchino, già, un maledetto tacchino avvinazzato. L'allegra compagnia sganciò una delle corde che designavano la fila per l'imbarco, saltando così una decina di sbadati che non si accorsero di nulla. Quelli dietro cominciarono a borbottare, ma come insetti minuscoli, nessuno ebbe pubblicamente nulla da eccepire. Il frastuono che faceva il gruppetto era insopportabile. Il capobanda sembrava farsi beffe di tutti. Normalmente a vent'anni avrei contato fino a dieci, poi con la fredda opacità di un killer la cui tecnica era stata perfezionata in un qualche sobborgo di Palermo, lo avrei sbattuto al muro, e riportato indietro di dieci caselle. In quegli anni avevo maturato l'aggressività di un pitbull con il prurito sempre sulle gengive e una luce poco rasserenante nello sguardo. Non feci nulla del genere. Ero cresciuto e crescendo avevo perso, uno ad uno, quei maledetti denti che lacerano la carne, anche la mia. Continuavo comunque a ripetere a me stesso: "Puoi farcela, tieni le mani in tasca". Con me, a tracolla, avevo la mia piccola borsa con dentro chewing-gum, filtri anti-pressione per le orecchie e spray decongestionante per il naso. Il tutto ben nascosto sotto la giacca, poiché easyJet, come un odierno Erode, lascia vivere un solo bagaglio a mano, per passeggero. La fisarmonica trascinata su un mini carrellino stringeva le spalle per sembrare più piccola e volare con me in cabina. L'imbarco su un aeromobile include quasi sempre, oltre lo stress proprio, quello altrui. C'è la corsa ad accaparrarsi i posti migliori, lo spazio sulle cappelliere, il tutto condito da bambini urlanti da sonno perduto, e pannolini ormai saturi.
Ho sempre trovato che le hostess abusassero della propria autorità, mentre gli uomini hanno un fare più amabile, morbido, quasi materno. Sul volo quella mattina c'erano entrambe le categorie. Il passeggero seduto accanto a me russa ricordandomi il ritmo della vecchia Prinz di mio padre. Un bambino strilla come un macaco giapponese strappato dall'albero natio. Una donna con la tosse ci annuncia di essere una fumatrice incallita. Con l'andare del tempo gli odori e le puzze cominciano a familiarizzare. Gente che inizialmente si scruta con sospetto adesso ti sorride e ti offre caramelle aromatizzate per la gola. Chi vola per Israele sa che ad un certo punto il veicolo si anima, e i praticanti ortodossi cominciano quasi simultaneamente ad aprire le cappelliere per tirare fuori tutto l'occorrente per la preghiera. Forse i ventimila piedi d'altezza in cui ci trovavamo stabilivano una connessione più stabile con Dio. Con una cordicella di cuoio legano sulla fronte una sorta di piccolo cubo di legno, che viene a sua volta fissato e ancorato come una biscia: al collo, all'avambraccio ed infine al dito medio. Il rituale si conclude con la copertura del capo attraverso un piccolo scialle e l'apertura del Libro delle Scritture. Poi comincia il "dondolio" tipico con il tronco, tra la testa e il libro. Questo rituale rievoca una certa familiarità con i musicisti più attenti, quando sul palcoscenico sfilano i cavi e organizzano le partiture, con la sola differenza che il cubo sulla testa è la paga a fine serata, o la fidanzata in prima fila. Quando tutto sembrò stancante, il pilota annunciò finalmente la discesa. Le mie orecchie reggevano bene, qualcuno dietro si lamentava. Appena le ruote toccarono la pista scoppiò un tenero applauso per il pilota. Ma per ovvi motivi non seguì un bis, ti immagini un pilota che riporta in quota l'aereo per godere di un ultimo applauso? Due minuti dopo, era il caos, come quando scocca l'ora dei saldi ai magazzini Lafayette di Parigi: aperte le porte la gente si catapulta sugli oggetti come per mettere in salvo la propria vita.
Quelli del lato finestrino generalmente si dividono in "senza speranze" (perché bloccati dai primi), e "guru" (aspettano che la mandria passi per poi a loro volta scendere nella più assoluta indifferenza). Io quel giorno facevo parte della mandria, anzi ero un bisonte abbastanza in testa. Quando vuoi evitare danni al tuo strumento puoi trasformarti in qualunque pesante quadrupede. La pellicola sembrava girare al contrario, eravamo nuovamente in coda per il controllo documenti. Poi ad un tratto rieccolo: il tacchino violinista! Nuovamente all'opera, con quel suo mood stancante, dava spettacolo e noia come le prime mosche nelle prime giornate di primavera. Ad un tratto il colpo di scena, sentii chiaramente e distintamente che stava urlando nella mia direzione: "Antonio !!! Antonio italiano !! Tu ! Antonio!!!" Ci voltammo tutti. Due file più sotto, stava proprio gridando e indicando me.
Dissi ok, non so che problemi ha quest'uomo ma se voleva farmi incazzare, ebbene, c'è riuscito. Fatto cenno ai miei amici di occuparsi dei miei bagagli e della fisarmonica, serrai la mascella, e come un salmone che risale controcorrente mi feci largo tra la gente. Ero quasi davanti a lui e abbastanza arrabbiato. Non feci in tempo ad aprire la bocca che: Paff..!! Come con un’arma dal potere gelante mi colpì al petto con il mio passaporto ! "Antonio, ti è caduto il passaporto! Eccolo, amico!".
Esitai un momento, perché non avevo più sentimenti a disposizione. Aspettai che il sangue tornasse a distribuirsi per tutto il corpo.
Tirai un sospiro. Pensai a quanto è stupida e disorganizzata la violenza, e l'umore serio. Lo ringraziai con tutta la riconoscenza che potevo trovare in quel momento, poca, per uno che ti ha appena graziato dall'inferno della burocrazia. Riscendendo lungo il fiume di persone mi sentii stupido, perché la natura umana nella sua forma più leggera mi aveva sfiorato e io, per sbadatezza, o per carattere plumbeo, quel giorno, non l'avevo riconosciuta.

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