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Un giorno senza miracoli

Lunedi, 19 / 11 / 2012  


Un' antichissima leggenda vuole la città di Pisa sorella giovane di un' omonima città greca. I nostri occhi e la nostra mente sono abituati a veder nascere interi quartieri e centri commerciali come fiori di campo su campi privi di fiori. Riflettendoci sopra, come per il concetto di infinito, l'infinitamente piccolo certe volte è duro da immaginare. La scintilla che innesca un incendio, un virus capace di uccidere milioni di cellule sane, il primo proiettile sparato in una guerra, un solo sguardo capace di farti piombare nell'amore per sempre. La prima casa che fondò Pisa certamente era scomparsa da secoli, e quelle che guardavo affacciarsi sull'Arno erano lontane pronipoti dal viso interamente rifatto. Me ne stavo cullato e piegato sopra il palcoscenico a collegare i cavi alla fisarmonica e pensavo a ciò che rende così speciali e diverse certe città italiane, non tutte, molte. Il rinascimento ha prodotto dei miracoli ma siamo sicuri che se staccassi dalle fondamenta palazzo Strozzi a Firenze, e lo piantassi come un albero ad Amburgo otterrei la stessa magnificenza? Cosa ne verrebbe fuori? Pensavo a qualcosa di osceno, a quelle accozzaglie e brutture collettive che ormai siamo abituati a vedere spesso nei musei d'arte contemporanea. Collegando l'ultimo cavo alla presa della corrente elettrica l'idea si accese sopra la mia testa: la luce! è tutto lì. L'armonia delle architetture di qualunque epoca in Italia ha come additivo segreto la luce, e peccato che in nessuno dei tre volumi di storia dell'arte italiana a Giulio Carlo Argan fosse passato per la testa di dirmelo. Pensando a Roma mi veniva in mente ora Camille Corot e quel suo color ruggine che scalda e sporca i muri più di un barolo d'annata. Quel rosso se lo porti oltre Chiasso si spegne. Un sangue che coagula subito, che muore per carenza di luce e forse pure di storia. Tutti questi messaggi mi dicevano che non stavo bene, campo dei miracoli così vicino pareva afferrarmi per il bavero della giacca e portarmi davanti ad uno specchio a mostrarmi il ciclo della vita, la mia compresa. Ora il battistero, ora la torre, il muro che annuncia il cimitero. Non c'ero stato ma avvertivo quella porta spalancata sulla storia, come un meteorite sopra la testa. Generalmente quando mi trasformo in una spugna e comincio a captare segnali da tutte le parti è un chiaro sintomo che qualcosa deve accadere, e stava accadendo, lì, da qualche parte, oppure a mille chilometri da quella luce, e come l'impianto audio del concerto, quel qualcosa stava per essere acceso. Il concerto defluiva come il fiume accanto, fino a quando il buio non ci avvolse tutti. Nell'ombra bisognava trovare un'altra magnificenza, un appiglio di bellezza, ma due in un solo giorno sarebbe stato impossibile, e così fu.

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